Blog della Musica ha incontrato Alfredo Marasti, autore dell’indie-kolossal (come lui stesso lo definisce) Ultimo D’Annunzio, uscito su etichetta La Stanza Nascosta Records, con arrangiamenti del musicista e produttore Salvatore Papotto
E’ una “suite” punteggiata di contaminazioni teatrali e cinematografiche, quella di Alfredo Marasti, in un’atmosfera più oscura che conciliante, ibrida tra fughe elettroniche/futuristiche e soluzioni più classiche/novecentesche (pianoforte e quartetto d’archi), che restituisce un ritratto complesso di una figura da sempre controversa e affascinante.
Quanto è durata la gestazione di un progetto così complesso qual è Ultimo D’Annunzio? Quali sono in particolare le letture, le musiche e- se ci sono- le visioni filmiche- che ne hanno accompagnato l’ideazione?
La “gestazione” è durata circa due anni, più altri due a cavallo della pandemia che sono serviti a rimettere un po’ in ordine i brani e le idee. Un libro su tutti, La mia vita carnale di Giordano Bruno Guerri, è stato di grande ispirazione, insieme a molti altri saggi. Naturalmente un concept del genere non mi sarebbe mai venuto in mente, così come è stato concepito, senza certi modelli di una tradizione ormai poco percorsa, penso soprattutto ai concept di De André (La buona novella, Storia di un impiegato) Branduardi(L’infinitamente piccolo) o Vinicio Capossela…
Quanto alle visioni filmiche, citerei Profondo rosso di Dario Argento – può sembrare fuori contesto, ma mi spiegherò meglio in seguito – oltre ai film novecenteschi di Bernardo Bertolucci, uno dei nostri più grandi registi. C’è poi il recente film di Jodice, Il cattivo poeta, interessante e ben fatto ma che sul piano dell’immaginario simbolico e “visionario” mi pare si muova su binari molto scontati. Quando è uscito al cinema, Ultimo D’Annunzio era già pronto.
Il concept “Ultimo D’Annunzio” sembra avere anche una dimensione cinematografica, grazie alla video trilogia che lo accompagna. Da dove deriva questa scelta?
In questo caso la dimensione cinematografica, più che seguire la composizione musicale, l’ha accompagnata fin dall’inizio. Un brano come quello di apertura, Al visitatore, è ben poco comprensibile se non si accompagna al video-racconto corrispondente, dove si vede un Mussolini/Narciso squagliarsi di fronte all’immagine di D’Annunzio riflessa nello specchio. Un modo per dire che il fascino di D’Annunzio sopravvive, mentre il culto del cosiddetto “duce” non esiste più, se non nelle mortuarie e trite ossessioni di pochi nostalgici. Proprio per questo il videoclip Al visitatore, fatto di specchi, corridoi e personaggi un po’ mostruosi, ci riportava su binari un po’ argentiani.
Inoltre io da anni mi muovo anche sul versante cinematografico, dove però a essere sincero non ero mai riuscito a distaccarmi da una certa povertà artigianale, non tanto artigianale da essere amatoriale ma insomma mancante di una vera e propria poetica stilistica e visiva. L’ho trovata in Chris Mazzoncini, co-regista di Ultimo D’Annunzio e in Aldo Masini, anche lui dietro la camera, due personalità validissime con cui spero di poter collaborare ancora. I tre videoclip che hanno accompagnato l’uscita del disco saranno presto montati in un film unitario (Ultimo D’Annunzio – Una trilogia), che uscirà su YouTube e verrà inviato ai concorsi.
Leggi l’articolo e guarda il video di Alfredo Marasti
di Da dietro il velo
“Due grandi novità sono maturate nei due cupi anni di pandemia: un disco su Gabriele D’Annunzio e un NUOVO LIBRO, argomento diverso, di cui potrò presto parlarvi. Ma in entrambi i progetti il TEATRO è una presenza fondamentale, sia come luogo fisico sia come concezione del mondo.” Così scrive sui social, vogliamo approfondire l’argomento?
Si tratta di un lavoro che per me è stato duro sia da scrivere sia da pubblicare, in quanto è stato completato durante la pandemia che ne ha ritardato la sistemazione editoriale. Si intitolerà Il piccolo diavolo e l’acqua santa: una monografia critica su Roberto Benigni, un personaggio appunto iper-teatrale e agli inizi dirompente ma purtroppo, secondo la mia tesi di lettura, molto involuto nel corso degli anni, soprattutto piegandosi al politicamente corretto, che è letale per alcune forme artistiche.
In una intervista il presidente della Fondazione Il Vittoriale degli Italiani, Giordano Bruno Guerri ha dichiarato di aver fatto “un’opera di verità e di giustizia storica: ho defascistizzato Gabriele D’Annunzio. Ho fatto capire che D’Annunzio col fascismo non c’entrava niente. Tra i ventimila oggetti che abbiamo al Vittoriale, non ce ne è uno richiami il regime”. In un certo senso, anche il suo disco sembra prendere una posizione analoga…
Conosco bene il lavoro di Guerri, che giudico affascinante oltre che opportuno. Come autore, tuttavia, voglio distaccarmi da un ritratto agiografico/celebrativo di D’Annunzio: mi è piaciuto leggere La vita carnale proprio perché in quel libro, composto attraverso le testimonianze delle due donne che più a lungo hanno vissuto con lui (Luisa Baccara e Amélie Mazoyer) emerge un D’Annunzio piccino, compulsivo e anche molto crudele. Ma anche molto umano, e accanto a questo c’è ovviamente anche il grande poeta, costruttore di immagini e del proprio stesso mito, che conosciamo. La cosa interessante per me era accostare tutte queste immagini per dare un ritratto, non per imporre un giudizio; certamente sono d’accordo che la complessità del personaggio non possa essere appiattita su quella del regime, che ha sfruttato
D’Annunzio, non il contrario. Peraltro sciogliere il faccione di Mussolini ci ha dato, in sede di riprese, una certa umana soddisfazione.
Un fantôme qui chante, on trouve ça rigolo
Et je couche, la nuit sur l’herbe des bois
Les mouches ne me piquent pas
Je suis heureux, ça va, j’ai plus faim
Così canta Charles Trenet in “Je chante”, che riecheggia nel finale del brano “Fiume”. Non solo l’incisione è del 1938, anno di morte del Vate, il che non è certamente un caso, ma anche il testo è per certi versi dannunziano. Tutto il disco è d’altra parte percorso da collegamenti stranianti e illuminanti al tempo stesso…
Bravissimo! Il riferimento era proprio al 1938, nonostante l’impresa fiumana sia del ’19. L’idea è un po’ che D’Annunzio, o una parte di lui, muoia lì, subito alla fine dell’impresa. La suggestione in questo caso era molteplice: da un lato, dopo essermi immedesimato nel “poeta-soldato”, volevo ricordare a me stesso, come in un ritorno alla realtà, ciò che sono: un semplice cantautore. Ma anche l’impresa fiumana alla fine è sfumata in qualcosa di molto canterino e ballerino, una specie di grande festa della rivoluzione, che però poi si è interrotta bruscamente prima di potersi concretizzare davvero sul piano istituzionale. Infine c’è una citazione sottotraccia a un grande film di Bertolucci, The Sheltering Sky, dove si parte per una grande avventura ma si trovano soprattutto la delusione e la morte…
Io vado in cerca del dio unico
Sono devoto solo alla Bellezza
Ho conservato la mia libertà
intiera fin nell’ebbrezza.
Così fa dire a D’Annunzio in Sala delle Reliquie. Che spazio c’è, nell’attuale momento storico, secondo lei per bellezza e libertà?
Entrambe sacrificate e schiacciate dalla logica dei social e dalla costante interconnessione. Per trovarle entrambe serve molto distacco.
Anche “Altri tempi” (contenuta nell’omonimo album precedente) ha un sapore, per certi versi dannunziano… Quanto D’Annunzio c’è in Alfredo Marasti?
A livello di estetismo e culto eroico, ben poco. Forse c’è il tentativo di salvare uno sguardo molto individuale sulle cose, la mia misura del mondo. Spesso è un limite, ma è anche quello che mi consente di scrivere certe cose.
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