Il 5 agosto del 1966, i Beatles, il celebre quartetto di Liverpool, assistiti dalle sapienti mani e orecchie di George Martin, pubblicavano Revolver (Parlophone). Vale la pena continuare ad ascoltarlo oggi, (quasi) 54 anni dopo? Sì. Senza dubbio. Ecco (alcuni dei) perché
“Quando parliamo di musica, non parliamo mai solo di musica”, direbbe Jacopo Tomatis (Storia culturale della canzone italiana, Il Saggiatore, 2019). Parliamo di contesti, di cultura, di spazi e delle persone che, quegli spazi, li occupano. Con idee, con soluzioni o con problemi. Con Revolver (Parlophone, 1966), i Beatles ci regala(va)no un mastodontico caleidoscopio di musica, cultura, tradizione e trasgressione.
- Revolver, anno domini 1966
- Testo e contesto
- Revolver fra musica e dichiarazione d’intenti
- Conclusioni
Revolver, anno domini 1966
Definire Revolver dei Beatles, anno domini 1966, un semplice album, sarebbe quantomeno riduttivo. Per comprendere l’importanza e l’influenza che questo capolavoro ha avuto nella storia della musica del suo periodo e degli anni avvenire, è necessario partire dal contesto in cui il quartetto di Liverpool ha composto queste quattordici tracce (cui si devono aggiungere, per dovere di cronaca, Paperback Writer e Rain, pubblicate come singolo prima dell’uscita del disco).
Testo e contesto
Gli anni ’60 sono stati un crogiuolo di arte e di stimoli culturali e artistici, di cui la musica era solo un tassello. Si pensi alla nouvelle vague francese di Truffaut (I 400 colpi), al cinema di Ingmar Bergman (Persona, L’ora del lupo) e al capolavoro di Luis Bunuel, L’angelo sterminatore, che massacrerà il perbenismo borghese in un’opera impietosa e surreale. Il teatro dell’assurdo di Samuel Beckett è un’altra parte di questo mosaico: la tanto famosa quanto inflazionata nel linguaggio corrente Aspettando Godot risale più o meno alla metà degli anni Sessanta. In Italia, Federico Fellini girerà il suo capolavoro, 8 ½, dove gli espedienti di metacinema sono numerosi ed evidenti. In quegli anni, Pasolini dirigerà Totò e Ninetto Davoli in Uccellacci e uccellini.
Nel campo musicale, è da sottolineare l’influenza di compositori d’avanguardia come Karlheinz Stockhausen e John Cage (l’avanguardia musicale aveva già toccato i Beatles dopo un incontro particolarmente fecondo avvenuto fra Paul McCartney e Luciano Berio). A Birmingham nasce il Centre for Contemporary Cultural Studies.
Per tirare momentaneamente le somme, si può dire che il quadro socioculturale all’interno del quale i Beatles operano è stracolmo di stimoli. Stiamo assistendo a una fase storica nella quale la cultura pop vuole riprendersi i suoi spazi e la sua dignità, e pretende di poter comporre arte.
Revolver fra musica e dichiarazione d’intenti
Revolver non affida il compito di “rottura” introduttiva alla musica: sceglie di usare la parola. Ma è solo la preparazione a un lungo e lisergico inventario di elementi che entrano ed escono dal pentagramma.
“One, two, three, four”: Taxman
Revolver si apre con Taxman, che prima ancora di essere una canzone è una vera e propria dichiarazione d’intenti: bastano realmente i primi secondi della canzone, la voce che scandisce il tempo metronomico del brano, per aprire un mondo all’ascoltatore. Se è vero, come diceva Marshall McLuhan nel suo celeberrimo saggio Understanding media (1964), che “Il medium è il messaggio”, in questo caso l’asserzione del sociologo è iperbolizzata: il disco, da semplice mezzo, diventa messaggio vero e proprio. I Beatles ci sbattono in faccia l’artificialità che è sottesa alle sessioni di registrazione. E quest’artificialità diventa un valore estetico (sul concetto di artificiale versus reale, in musica, si potrebbero aprire enormi dibattiti, specie a partire dagli anni Novanta e dal disco Out of Time dei R.e.m.). Oggi lo diamo quasi per scontato: si pensi alla traccia di apertura di When we all fall asleep where do we go? (2019, Darkroom, Interscope records), di Billie Eilish (artista a sua volta influenzata in alcune composizioni dagli stessi Beatles: un esempio è Xanny, col passaggio La – Re – Rem e con il basso discendente per gradi congiunti sul Fa#m); o al cluster di pianoforte e alla risata nei primi secondi di Roxanne dei Police (contenuta nel loro disco d’esordio Outlandos d’Amour, 1978, A&M Records). Ma allora, la valenza di quel gesto era davvero dirompente e rivoluzionaria. All’interno del brano si possono ravvisare alcuni elementi che saranno tipici nell’intero disco: le armonizzazioni vocali per terze parallele (già ampiamente usate nei precedenti dischi dei Beatles, tanto da diventarne un marchio di fabbrica), le melodie costruite su scale modali, così come il solo di chitarra “indianeggiante”.
Di Eleanor Rigby e destabilizzazioni varie
L’abbattimento fra “musica colta” e “musica pop” potrebbe partire proprio dalla seconda traccia di Revolver, Eleanor Rigby: una doppia sezione di archi amplificata utilizzando dei microfoni da studio di registrazione. Cosa deve farci riflettere? Che da quel momento in poi tutta la musica colta avrebbe utilizzato lo stesso espediente. È l’inversione dei ruoli: il pop diventa modello, la musica colta segue. La raffinatissima melodia è costruita, anche qui, su una scala modale.
Il solo di chitarra di I’m only sleeping suona “al contrario” per destabilizzare l’ascoltatore e dare quella sensazione di instabilità derivante dall’uso di sostanze psicoattive, così come il cambio di tempo in She said she said, da 4/4 a 3/4, o la batteria “rallentata” di Rain. I Beatles non si limitano a usare il linguaggio musicale, ma lo espandono al di là dell’album. Gli espedienti meccanici non sono meri esercizi di stile, ma sono organici a un’idea.
Love you to
Love you to è uno dei capolavori del disco: il sitar di George Harrison (che aveva un precedente nel 1965, in Rubber soul, con Norwegian Wood, che è per certi versi l’antecedente ideale di questo brano su un piano concettuale) è il vero protagonista di questa composizione. Un brano di musica classica indiana tradotta e cantata in inglese. Soffermiamoci su questi elementi: un quartetto inglese suona un pezzo di musica colta. Ma non è un pezzo di musica colta europea: proviene dall’India. L’India, il paese che si oppone alla cultura occidentale del consumismo. Viene suonato con uno strumento proprio di quella cultura, ma tradotto in una lingua accessibile al grande pubblico. I temi della controcultura, nata all’interno di canali alternativi a quelli dominanti, creati dagli stessi artisti per gli stessi artisti, si condensano tutti all’interno di questa gemma musicale.
Si prosegue con la dolcezza di Here, there and everywhere. La voce di Paul McCartney, sottile e velata, è sorretta da un delicatissimo strumming di chitarra e da un tappeto di armonie vocali. Notevoli i passaggi di registro vocale di Paul McCartney, oltre alle variazioni armoniche che permeano l’intera composizione.
Yellow Submarine
Solo apparentemente scanzonata è Yellow submarine: pretesto per narrare la parodia di una favoletta per bambini, la composizione contiene tracce di registrazioni effettuate nei bagni degli studi di registrazione: un esempio di musica concreta all’interno di un disco di musica pop. A onor del vero, questo era già presente in un disco dello stesso anno dei Beach Boys, Pet sounds, monumento della popular music. È interessante tuttavia notare come dietro una canzone “semplice” nella tessitura armonica e melodica si trovino delle sperimentazioni di questo tipo. E non sono le uniche: a partire da questo disco, infatti, cominceranno ad essere utilizzati degli espedienti tecnologici per raddoppiare automaticamente le voci. Se questo ci può suonare quasi ovvio oggi, non lo era per niente nell’era dell’analogico. La grandezza monumentale di Revolver non sta, quindi, solo nella sua complessità compositiva, né nelle idee metamusicali che il quartetto inglese vuole lanciare, ma anche nell’ampio e massiccio uso di tecnologie all’avanguardia per l’epoca, che sarebbero diventati di uso comune solo successivamente.
Tomorrow never knows
L’ultima traccia del disco è Tomorrow never knows, definita da molti una delle migliori canzoni composte dai Beatles – non a torto, verrebbe da dire ascoltandola. La batteria incalzante di Ringo Starr, la vocalità di John Lennon insistente su una scala modale, dei nastri magnetici usati come loop, registrazioni di rumori indistinti e di archi in lontananza (un uccello che cinguetta?), la voce di Lennon che ripete ossessivamente nel finale della canzone of the beginning. Tutto questo, architettato alla perfezione, rende questa traccia una perfetta summa di questo disco.
Conclusioni, ossia: non parliamo mai solo di musica
Ma Revolver non è, come già detto in precedenza, solo un disco. È un modo di concepire l’arte, un’idea di musica che travalica i confini della musica stessa sfruttandone tutti i mezzi armonici, melodici, timbrici e tecnici. Un disco praticamente perfetto, che rappresenterebbe l’acme della produzione beatlesiana, se non fosse stato seguito nel 1967 da Sgt. Peppers Lonely Hearts Club Band.
di Federico Murzi
Fonti
Si ringrazia il prof. Massimiliano Raffa, docente di Storia della Popular Music presso l’IULM di Milano, per le sue lezioni e i suoi spunti di riflessione.