Vi siete mai chiesti come si può incidere un disco? Come da un’idea musicale si arriva, dopo vari processi, ad una vera e propria incisione discografica per creare un CD, un Vinile, o un file audio di qualità e pronto per essere caricato sulle più importanti piattaforme digitali? Ve lo spieghiamo in questo articolo…
Tutti abbiamo, prima o poi, sognato di entrare in un gruppo musicale e un giorno, chissà, incidere un disco, un cd, un nastro o un MP3. Chi ha avuto l’occasione di realizzare, anche a livello amatoriale, il proprio sogno, si sarà accorto che entrare in uno studio è un’esperienza vivissima, e che la tecnologia, e le prassi del mestiere, sono tutt’altro che scontate: il processo di incisione discografica è un vero e proprio mondo, che merita di essere conosciuto e raccontato.
- Incidere un disco: live o in studio?
- Lo studio di incisione discografica
- Dalle tracce al disco
- Fonti
Incidere un disco: live o in studio?
Negli anni pionieristici della discografia, le registrazioni avvenivano “in diretta”, con tutti i performer convocati e presenti, e attraverso mezzi puramente meccanici. L’apparecchiatura era formata da un tamburo girevole di ottone a manovella sulla cui circonferenza era inciso un solco elicoidale. Una membrana, vibrando, captava i suoni dalla tromba acustica e li trasmetteva alla puntina, deputata a incidere il disco.
Il cantante, col gruppo di supporto alle spalle, era registrato senza mediazioni, e in un’unica session, live. Il dispositivo di captazione del suono era uno solo: il fonografo. Ciò costringeva i musicisti ad avvicinarsi durante la performance solista, o ad arretrare se in secondo piano sonoro. In caso di errore, si buttava via tutto, e si cominciava da capo.
A metà degli anni Venti, il passaggio ai sistemi elettronici (microfoni a condensazione, valvole termoioniche e amplificatori-altoparlanti) porta a una prima rivoluzione del processo di incisione. Le vibrazioni, non più convertite in traccia incisa per mezzo diretto e meccanico, sono captate dal microfono, trasformate in impulsi elettrici e quindi amplificate: in questo modo, il suono risulta molto più potente, e ricco di sfumature. I dischi registrati con la nuova tecnologia sono messi in vendita a partire dal 1925, assieme ai primi fonografi elettrici.
Alcuni ricercatori sfruttano l’occasione per uscire dal chiuso degli studi e andare a registrare i cantanti “rurali” (bluesman e country singer) direttamente sul campo (“field recording”). Gli apparecchi – grandi e pesanti – possono essere caricati su un camioncino, e portati dove serve: nel caso, si allestirà un laboratorio di fortuna nella camera di un hotel, nel retro di un negozio o nel cortile di un carcere, e alla fine si tornerà a New York con un disco di alluminio, pronto per il riversamento.
Verso l’inizio degli anni Cinquanta, il passaggio alle tecniche di registrazione su nastro magnetico porta a un nuovo, e più profondo, cambiamento. Grazie al cantante, chitarrista e inventore Lester William Polfuss, in arte Les Paul, il processo di incisione si perfeziona nel cosiddetto sistema “multitraccia” (“multitracking”): ogni strumento (o insieme di strumenti), e ogni voce, sono cioè registrate separatamente su una porzione di nastro magnetico, e successivamente miscelate.
Lo studio di incisione discografica
Il processo d’incisione avviene all’interno di uno studio di registrazione: un ambiente acusticamente isolato, studiato ad hoc per ottenere la miglior qualità sonora possibile. Da un lato troviamo la sala di ripresa (dove agiscono i cantanti e i musicisti, a loro volta separati gli uni dagli altri da barriere in materiale isolante), e dall’altro la cabina di regia (il regno del mixer e del fonico).
Le sorgenti sonore prodotte dai musicisti e dai cantanti sono registrate su tracce singole (mono o stereo): i primi a incidere sono solitamente gli strumenti ritmici (batteria, basso e percussioni), cui seguono chitarra, tastiere e fiati, e infine le voci. L’equazione “uno strumento = una traccia” non è sempre valida. È possibile raggruppare più strumenti, o voci, in un’unica traccia; o, al contrario, riservare a uno strumento più punti di captazione: ogni tamburo o piatto della batteria, ad esempio, può essere registrato singolarmente, in modo da poter effettuare manipolazioni ad hoc.
Dalle tracce al disco
I vantaggi della registrazione multitraccia sono moltissimi. Non è più necessario che tutti gli esecutori siano contemporaneamente presenti in studio: e, soprattutto, un passaggio sbagliato si può anche cancellare, e ripetere fino a ottenere la precisione necessaria. Utilizzando due registratori collegati in serie è inoltre possibile sovrapporre nuovo materiale sonoro a ogni passaggio (il “bouncing”): una tecnica “a strati”, in cui uno strumento (o sezione di strumenti) suona appoggiandosi alla traccia precedentemente incisa dagli altri, e così via. Le registrazioni “live in studio”, foriere di errori e imprecisioni, spariscono così dalla scena, diventando un fatto tanto raro quanto notevole, un “fiore all’occhiello” da esibire come attestato di bravura e autenticità.
Nell’epoca delle incisioni analogiche, la quantità di tracce disponibili è limitata dalla larghezza del nastro magnetico. La Ampex fornisce Les Paul di un prototipo personale a 8 tracce, e commercializza in serie una macchina a 3 tracce: la musica è registrata sulle prime due, mentre la terza è riservata al cantante solista.
Il passo successivo è il registratore a 4 tracce indipendenti, più versatile e completo. George Martin della EMI, assieme al fonico Geoff Emerick, sfrutta tutte le risorse offerte da questa tecnica con audacia e fantasia per regalare ai Beatles dei veri e propri capolavori: manda i nastri al contrario, accelera o rallenta una traccia, filtra le voci e sovrappone performance a performance, ottenendo strati sonori densi e stratificati. Nel 1968 la Ampex commercializza il modello a 16 tracce: Roger Daltrey degli Who afferma entusiasticamente che “non c’è bisogno di avere più di 16 tracce per essere creativi al massimo”.
A lavoro finito, le tracce vengono unite e amalgamate attraverso il mixer: una consolle che raccoglie, bilancia e miscela le varie sorgenti, regola i volumi e le singole equalizzazioni, e applica alcuni effetti sonori (come ritardi, riverberi ed echi). Alla fine del processo d’incisione, si avrà un flusso sonoro unico e compatto: la versione definitiva, incisa sul nastro-master.
Il segnale è quindi trasferito dal nastro-master a un tornio di stampa, che incide il disco-master, l“acetato”: una sorta di “primo disco” che riproduce con la massima precisione possibile i suoni originali. Dall’acetato, con un processo chimico-meccanico, si ottiene poi la “copia madre”: la matrice da cui – attraverso batterie di presse idrauliche – saranno stampati in catena i dischi destinati alla vendita. Più semplice ancora la fabbricazione di cassette e cd: sempre partendo dal nastro master si procederà, nel primo caso, a una duplicazione magnetica, e nel secondo a una masterizzazione seriale.
A cura di Francesco Chiccoconti
Fonti
- Musica e Memoria.it (Internet). Disponibile all’indirizzo: http://www.musicaememoria.com
- Wikipedia (Internet). Disponibile all’indirizzo: https://en.wikipedia.org/wiki/Wikipedia
- ERNESTO ASSANTE, FEDERICO BALLANTI, La musica registrata, Roma, Dino Audino Editore, 2004
- PAOLO PRATO, Sociologia della musica registrata dal fonografo a internet, Ancona-Milano, Costa & Nolan, 1999
Crediti Immagini
- Tornio di incisione: Di Remixato – https://www.flickr.com/photos/31649343@N02/5376902121, CC BY-SA 2.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=30306249
- Foto di Copertina: Credits “Iain McMillian ©Yoko Ono