Il 1969 dei Beatles e il 1979 di Lucio Battisti nel nuovo libro di Donato Zoppo, Un nastro rosa a Abbey Road

Un nastro rosa a Abbey Road è la nuova pubblicazione di Donato Zoppo.
La prima impressione era stata quella di un immaginario 33 giri con due facciate monografiche. Beatles sul lato A, Battisti sul B. Bisogna ammettere che qualche perplessità iniziale c’era, anche per lo iato temporale che separa i due segmenti, sin dal titolo: Un nastro rosa a Abbey Road. Il 1969 dei Beatles, il 1979 di Lucio Battisti.
Non che sia sempre strettamente necessario uniformare tutto, men che meno nella scrittura ma — per restare al lessico discografico — una simile opera richiedeva se non altro un ottimo mastering. E Donato Zoppo ci riesce con maestria, è bene dirlo subito. Anzi, non si limita al mastering ma “rimasterizza” la sua stessa opera, riscrivendo e ricalibrando le due recenti monografie per GM Press dedicate appunto al 1969 dei Beatles (Something, 2019) e al 1979 battistiano (Con il nastro rosa, 2020).
Di metafora in metafora, è come far ripartire quel Beetle (in senso automobilistico) parcheggiato a Abbey Road e a guidarlo fino a un’anomima strada milanese, schizzando il malcapitato passante in una giornata uggiosa. Mille chilometri e dieci anni più a sud. Due copertine, primi tessuti connettivi per una variazione sul tema del doppio addio, la cui cronaca è annunciata quanto si vuole, ma ci tiene comunque incollati alla pagina, come in uno spannung dall’elegiaco scioglimento (appunto).
«Cose vecchie con il vestito nuovo», per dirla pescando da altri canzonieri? Non proprio, perché tra le righe di Un nastro rosa a Abbey Road c’è una buona dose di conoscenza inedita, tanto per il devoto dei quattro di Liverpool quanto per l’appassionato del «Nostro Caro Lucio». «Un pulviscolo di dettagli», scrive l’autore, puntando i fari sulle bellezze degli outsider e dei b-side, per la gioia del recensore che concorda sulla «intollerabile superiorità di Old Brown Shoe».
E poi la storia di quei due ragazzi del ‘43, nati a otto giorni di distanza: George il 25 febbraio, Lucio il 3 marzo. Bronci, più che sorrisi, sotto baffi di foggia diseguale, mentre giungono al capolinea delle rispettive prime nozze artistiche. Un canto del cigno per i Fab Four sotto l’ala protettrice di George Martin, un ultimo solco per la coppia Battisti-Mogol a casa di Geoff Westley. Due decenni in attesa di una exit music prima di attraversare le strisce pedonali.
Un nastro rosa a Abbey Road non sollecita soltanto il linguaggio musicale ma anche quello cinematografico, con una penna che restituisce eventi, dialoghi e ambientazioni come in una sceneggiatura. E se Peter Jackson — di cui Donato recepisce l’importanza bibliografica, aggiornando il suo resoconto alla luce del nuovo Get Back — ci ha appena riportato sul tetto di Savile Row, Zoppo imprime su carta le sessioni londinesi di Battisti, tra «facili entusiasmi e ideologie alla moda». Lucio che canta alla buonóra, raggiunge lo studio londinese intirizzito, «si strofina le mani, beve il suo té bollente e raggiunge il microfono», per lasciarci in dote la più celebre citazione pop italiana. Che nella mente del recensore si sovrappone all’epitaffio beatlesiano di dieci anni prima: sarà poi vero che alla fine l’amore che prendi è uguale all’amore che dai? Lo scopriremo solo vivendo.