De André, Guccini, Mina, Bennato, Conte, Vecchioni, Zucchero, Bertoli, Branduardi… Menzionare tutti i nomi che si sono avvalsi delle sue bacchette costringerebbe a un elenco ben più lungo dell’intervista stessa. Settantaquattro anni a luglio, circa 1500 dischi incisi tra beat, pop, jazz, canzone d’autore. Ellade Bandini si racconta in una delle più belle conversazioni, non solo musicali, che chi scrive ha avuto la fortuna di intrattenere negli ultimi tempi.
Benvenuto Ellade Bandini su Blog della Musica. Caro Ellade, innanzitutto è doveroso chiederti come stai vivendo, personalmente e professionalmente, questa lunga emergenza.
Sto bene. Ho 74 anni e sto bene, sto tranquillamente in casa, anzi seguo le direttive con più zelo di quanto richiesto… L’unico problema riguarda proprio la passione per il mio strumento e per la musica. Un certo tipo di lavoro molto probabilmente non mi sarà più possibile, perché per ripartire con i grandi concerti ci vorrà del tempo…
Anche secondo te cambierà il modo di intendere la musica dal vivo?
Spero si torni al tempo in cui gli artisti non erano irraggiungibili star megagalattiche, simili a personaggi fantozziani. Prima erano loro a spostarsi di città in città… si poteva toccarli, riconoscere addirittura il profumo, la marca della saponetta usata! I movimenti ambientalisti dovrebbero essere consapevoli dei danni provocati dallo spostamento di migliaia di auto, rispetto a due tir per la strumentazione, un paio di monovolume per tecnici e musicisti, un’auto per l’artista…
Ma tornando alla domanda iniziale, quando tutto ripartirà seriamente, a quel punto cos’avrò… 76… 77 anni? No, non si può fare… Dicono che io abbia partecipato a più di 1500 registrazioni… non so, ma fossero anche solo cinquanta sarebbero sempre più di quanto potessi immaginare agli inizi… quello che dovevo fare l’ho fatto! Suonerò, mi dedicherò a incontri e seminari… Mi concentrerò su un’autobiografia che mi porto dietro da un paio d’anni… Non ho più la TV, ma in compenso ho un mucchio di libri da leggere, e tanti dvd da guardare con il proiettore… le cose da fare proprio non mi mancano!
Millecinquecento i dischi incisi, decine – centinaia? – gli artisti con cui hai collaborato: ricordarli tutti è quasi impossibile. Vorrei chiederti però di ripercorrere con me gli inizi della tua lunga carriera.
Bisogna fare un salto indietro fino agli anni del beat, al 1965 per la precisione, quando con Ares Tavolazzi abbiamo fondato un gruppo chiamato The Avengers, con Enrico Hartwig alle tastiere e Renzo Pincin alla chitarra. Nel giro di poco tempo venimmo notati da Carmen Villani… oggi viene ricordata come bellissima protagonista delle commedie erotiche anni Settanta, ma credimi, era veramente una grandissima cantante, molto più di tante considerate iconiche.
A un certo punto però abbandonai il gruppo… avevo problemi economici e accettai l’offerta di un’orchestra, che mi garantiva guadagni maggiori.
Dopo un po’ di tempo però Carmen mi richiamò per suonare col suo nuovo gruppo, tutto milanese, capitanato da un giovane Vince Tempera. Nel 1968-’69, Vince chiamò me e Ares a Milano per incidere quelli che si chiamavano “provini” discografici. C’erano alcuni appuntamenti fissi ogni anno, il Cantagiro, Sanremo, il Disco per l’estate, per i quali gli autori presentavano brani inediti, eseguiti da ragazzi che registravano con i cantanti scelti, Wess, Morandi, Drupi…
Venivamo pagati la metà rispetto ai professionisti che avrebbero poi registrato il disco “vero”, qualora il brano fosse stato selezionato. Il caso volle che Ares, io e Tempera facessimo due provini, nel 1969-’70, Vado via di Drupi e Io mi fermo qui di Donatello. Quando vennero accettati al Festival di Sanremo, le versioni incise dai “professionisti” non erano convincenti come le nostre. Era la prima volta, credo, che dei provini venivano pubblicati come versione finale!
Cosa li rendeva così inimitabili?
La freschezza, l’entusiasmo di giovani spinti da un’enorme passione. È così che nascevano tanti gruppi… come i Quelli, la futura Pfm, che registravano in prevalenza per la Numero Uno di Lucio Battisti… ogni casa discografica aveva i suoi musicisti di fiducia… Andy Surdi, Cappellotto, Maurizio Fabrizio, registravano spesso per la Ricordi. Io e Ares invece, sempre al seguito di Vince, registravamo un po’ per tutti e di tutto, perché avendo fatto tante sale da ballo eravamo, come si dice a Ferrara, “da ov e da lat”… da uova e da latte!
È da questa gavetta che nasce The Pleasure Machine?
Noi tre di solito entravamo in studio molto prima del cantante di turno e nell’attesa iniziavamo a suonicchiare. Il tecnico della Sax Records, Ezio De Rosa, ogni tanto diceva: “Registriamo, vediamo come viene…”, così abbiamo inciso un sacco di materiale mai uscito… Finalmente il produttore, Giampiero Scussel, ci chiese di registrare qualcosa da pubblicare. Il primo disco fu Fuoco di paglia, il secondo Asia di Guccini, nel 1971…
Guccini, appunto. Puoi ricordarci gli inizi della vostra lunghissima collaborazione?
Un giorno Vince ci telefona, dicendo che c’era la possibilità di lavorare con questo nuovo cantautore bolognese, che dopo un buon album d’esordio, Folk Beat n.1, stava preparando il secondo, L’isola non trovata. Con Pier Farri, il primo produttore, è stato faticosissimo lavorare, mi chiedeva di suonare in un modo in cui non mi riconoscevo… Un giorno chiese a Tavolazzi un “suono giallo”. Ares chiuse la custodia e fece per tornarsene a casa [ride]… Spesso venivo impiegato quasi come un rumorista, con quelli che Francesco chiamava “misteriosi colpi di tamburo”… A partire dall’album Guccini (1983) il nuovo produttore, Renzo Fantini, mi ha finalmente permesso di suonare quei brani come li intendevo io… mi sono sentito rinato! Hanno continuato a lungo a farmi battute: “Ma su birra chiara e Seven-Up non si sente il tappo che salta, non c’è il frizzantino…” [ride]
Cosa pensi, musicalmente, della canzone d’autore e della sua ricezione da parte del pubblico?
Gli amanti della canzone d’autore, mediamente, prediligono il testo alla melodia. Dicono sempre “Senti che bella, questa canzone…” e io: “Non mi sembra così bella!”, “No, ma senti che meraviglia quando dice…” e io: “Ma quella non è la musica, è il testo, sono due cose diverse!”… Quando un marito è brutto, grasso, piccolo, mentre la moglie è bellissima, non puoi dire che è una bella coppia.
Sei stato il batterista di Fabrizio De Andrè dal 1984 fino all’ultimo concerto, incidendo anche alcuni pezzi in studio. Cosa ricordi di quell’esperienza?
Ho registrato solo alcuni brani dell’ultimo album, sono stato il primo dei suoi musicisti a sentirli con Fabrizio e Piero Milesi. Erano sei mesi che De André gli dormiva in casa, lavoravano, cambiavano, senza mai essere sicuri… Piero era a pezzi. Mi ha chiamato per chiedermi di andare a Milano ad ascoltare due brani “quasi” pronti, anche per tranquillizzare Fabrizio. Sono andato, Fabrizio si è seduto di fronte a me… parte il primo pezzo e a me viene subito la pelle d’oca, soltanto a sentire “Mastica e sputa”… Il secondo era Prinçesa. “Che idea hai?”. Con Fabrizio dovevi rispondere entro un secondo. Ho escogitato un trucco, rubando i primi due quarti delle prime due battute del pattern creato da Walter Calloni per Creuza de mä, che si completa appunto in due misure. Ne ho fatto un’unica battuta… era come sentire Creuza de mä col disco che salta! Ma nessuno si è accorto del trucco! La registrazione di Anime salve è stata estremamente sofferta. Ma con me Fabrizio è sempre stato la persona più stupenda che esista.
Altri artisti con cui hai potuto esprimerti liberamente?
Branduardi, ad esempio… nel disco Si può fare mi ha lasciato subito piena libertà. Credo siano proprio i suoi album quelli in cui riesco a riconoscermi maggiormente. Poi registri per quindici anni con Mina, tra le più grandi al mondo e le chiedi: “Come vuoi essere accompagnata in questo brano?”. E lei: “In copertina c’è scritto alla batteria Ellade Bandini, devi essere soddisfatto tu di quello che hai fatto”… che grande!
Pratichi da anni yoga e Meditazione Trascendentale. Quali benefici ne hai avuto, come uomo e come musicista?
Nel 1975 venivo da un periodo di alcolismo fortissimo. Mi sono ubriacato una volta sola nella mia vita… però è durata quindici anni! [ride] Un giorno ero in studio con Pino Presti, arrangiatore di Mina… mi dice: “Hai un colore strano, bevi un po’ troppo…” e mi consiglia di andare da Carlo Patrian, che aveva aperto il primo centro yoga a Milano, se non in tutta Italia. Ci sono andato… ho smesso di bere e fumare lo stesso giorno. Poi ho iniziato a fare Meditazione Trascendentale con Carlo Buono, di Ferrara…. Mi ha tolto le angosce, le insicurezze, anche nei live. Ho cominciato ad avere fiducia, non avevo più paura, quando dovevo dire qualcosa la dicevo, quando dovevo prendere una decisione sapevo quale prendere… Stavo firmando un contratto di due anni con Holiday on Ice, due milioni e mezzo al mese più spese per una tournée mondiale! Non avevo alternative, ma nonostante questo, una settimana prima di partire chiamo e con una scusa rinuncio. Dopo dieci giorni mi chiama il produttore Sandro Colombini per propormi di incidere con Edoardo Bennato, arrivato in studio con una quarantina di pezzi… tanto che Colombini ebbe la geniale idea di far uscire ben due album, prima Uffà Uffà e dopo un mese Sono solo canzonette. Da lì è partita tutta la mia nuova storia.
di Francesco Brusco