Guccini – Frammenti di un discorso musicale è il nuovo libro di Francesco Brusco, docente di storia dell’arte, musicista e studioso di popular music. Gilberto Ongaro l’ha intervistato per approfondire il contenuto di questo nuovo volume edito da Mimesis
Francesco Brusco: Guccini – Frammenti di un discorso musicale è un libro che si focalizza sul lato musicale di Francesco Guccini. Com’è nata questa idea?
L’idea è nata da un incontro con lo stesso Guccini, incontro durante il quale aveva svelato alcuni “retroscena” dei suoi anni in studio di registrazione. In quel periodo stavo lavorando a un libro sulla musica e le collaborazioni di Fabrizio De André, un altro cantautore per il quale la critica ha sviscerato l’aspetto biografico e letterario trascurando a mio avviso quello musicale. Ho quindi ritenuto che anche nella letteratura dedicata a Guccini – che si è comunque arricchita negli ultimi anni con ottimi studi quali la recentissima monografia di Paolo Talanca – mancasse questo tipo di analisi.
Le canzoni non sono né poesia né musica, sono canzoni, hanno cioè una loro specificità artistica e una loro precisa dignità. (Francesco Guccini)
Parlando del boom dell’industria discografica negli anni ’60, emerge il concetto di “autenticità”, insinuando il dubbio che tale valore non sia intrinseco nei cantautori, ma assegnato dalla ricezione, dagli ascoltatori. Nel 2020 ha senso cercare l’autenticità negli artisti? Se sì, dove si può trovare, o meglio, si può ricreare quell’aura selezionando determinati artisti, riacquistando lo spirito del Club Tenco degli esordi (la cui Targa era una sorta di “patente” che legittimava i vincitori), in forme attuali?
Guarda, nei giorni della morte di Maradona si è tornati a parlare dell’impossibilità di paragonarlo al panorama odierno, così come era anacronistico il famoso confronto tra lui e Pelé. Per la musica è un po’ la stessa cosa, è impossibile far rivivere negli artisti di oggi l’estetica di quelli di ieri, e non perché essi siano migliori o peggiori. Semplicemente, sono diversi. È diverso il contesto, ed è diversa la ricezione dalla quale (citando Middleton) deriva la “patente” di autenticità e di autorialità, la quale è assegnata a partire da una prospettiva esterna, da una sorta di accordo sociale che va continuamente rinegoziato.
Quello dell’autenticità è in realtà un concetto abbastanza vago, che deriva probabilmente dal meccanismo attraverso il quale la ricezione identifica il cantautore con il soggetto parlante della canzone, il quale vivrebbe in prima persona tutto ciò di cui scrive. Comunque la si voglia definire, nell’ambito della canzone d’autore l’autenticità è stata subito costretta a scendere a patti con l’esigenza di visibilità, raggiungibile solo tramite l’industria culturale. Il paradosso è che da un lato l’autenticità viene invocata come discriminante estetica del prodotto “canzone d’autore”, per distinguerlo dalla musica di consumo (altro concetto piuttosto aleatorio). Dall’altro, è essa stessa un prodotto fabbricato dall’industria culturale e discografica. Peraltro, la relazione tra cantautore, industria e consumatore non è certo priva di conflitti, anche tragici, come dimostra il caso di Luigi Tenco…
Dopo l’iniziale insuccesso di Guccini, egli avrebbe già terminato la propria esperienza musicale, iniziata per curiosità, ma il maestro Mansueto De Ponti lo spinse a continuare. Oggi, nell’ipertrofia di proposte musicali, chi spicca sugli altri ci riesce in base alla comunicazione pubblicitaria: tutti contro tutti. Come agisce un talent scout oggi? Come può selezionare e valorizzare la qualità rispetto alla furberia?
Ah, se avessi la risposta giusta a queste domande avrei continuato a fare il musicista a tempo pieno! Sicuramente le modalità di azione dei talent scout di oggi sono molto diverse da quelle di cinquant’anni fa… sono proprio le dinamiche dell’industria discografica a essere mutate, specie nell’epoca del web. Quella che portò alla ribalta nazionale Francesco Guccini era un’industria che poteva permettersi di attendere, di investire a lungo termine sugli artisti promettenti. Poteva permettersi anche di concedendo loro una falsa partenza in termini di vendite… anche due, nel caso di Francesco. Anche qui, siamo di fronte a due contesti profondamente differenti.
Vorrei spezzare una lancia a favore di Pier Farri. Forse, con la sua richiesta di un “suono giallo”, stava pensando ai cromatismi di Kandinskij! Anche se il giallo lui lo attribuiva alla brillantezza della tromba, quindi chiederlo ad un bassista era cosa un po’ azzardata! Ma col senno di poi, non è bello vedere che diverse sensibilità hanno prodotto diverse soluzioni, partendo dalle stesse suggestioni delle parole di Guccini?
Non so se pensasse a Kandinskij… ma certo, con il senno di poi, possiamo anche comprendere il significato da lui attribuito al colore giallo. Un suono giallo è un suono luminoso, aperto, ricco di brillantezza e di armoniche. Lo stesso Vince Tempera, testimone dei fatti, durante l’intervista che mi ha concesso si è espresso più o meno in questi termini. E di certo non tutto è da buttare, in quell’approccio “cinematografico” di Pier Farri. La maggior parte degli interessati però, Guccini in primis, ha sottolineato come dietro a quelle frasi a effetto ci fosse spesso più confusione che chiarezza di idee. Farri aveva in mente un principio anche condivisibile, quello del suono significante. Anche per lui, la musica doveva guadagnare un ruolo più centrale all’interno della canzone d’autore, e sono assolutamente d’accordo. Ma nella pratica in studio poi questi principi non sempre riuscivano a sposarsi con la forma canzone di Guccini e sfociavano molto spesso in una ricerca dell’effetto sonoro fine a se stesso, o comunque in un mimetismo un po’ banale. Si pensi al cinguettio incessante in Asia, all’urlo sul finale de La Collina. Ellade Bandini mi ha detto che in quegli anni era costretto a suonare quasi come un rumorista, sottolineando alcune parti del testo con quelli che Guccini chiamava “misteriosi colpi di tamburo”.
A proposito della maturità stilistica a partire dagli anni ’80 in poi, quando tutta la squadra si emancipa dall’imitazione di stilemi esteri: vorrei un suo focus sull’album “Stagioni” del 2000. Ci sono il malinconico sassofono di “E un giorno…”, il clavicembalo per l’epopea di “Don Chisciotte”, l’imprevisto blues di “Inverno ‘60” ed altro ancora. Unire tutte queste sonorità variegate in un unico album, senza togliergli coerenza, può essere la dimostrazione di questa consapevolezza musicale? Cosa può dirci su questo disco del “terzo periodo”?
Sono tante sonorità che nel frattempo si erano fuse nello stile di Guccini dal momento in cui, all’inizio degli anni Ottanta, aveva affidato la cura degli arrangiamenti ai suoi musicisti, sia in studio che dal vivo. Col passare del tempo i musicisti hanno raggiunto piena consapevolezza del loro ruolo, acquistando una grandissima autonomia in studio di registrazione. Francesco, durante la lavorazione degli ultimi album, entrava in sala all’ora di pranzo… ascoltava il lavoro fatto fino a quel punto e solitamente diceva “Bene, bene… andiamo a mangiare?”. Poi andava a incidere le sue parti nel tardo pomeriggio. L’alternanza tra studio e osteria, nei racconti dei suoi musicisti, ricorre spessissimo! Guccini si è sempre fidato tantissimo dei suoi collaboratori, che ormai sapevano benissimo a quale risultato egli tendesse.
Quanto a Stagioni… beh, innanzitutto è il disco che saluta il vecchio millennio con un Addio che a molti era sembrato un preludio al ritiro dalle scene. Per fortuna non era così, come avrebbero dimostrato i due album seguenti. È un disco che parla del tempo che passa, uno dei grandi topoi dell’opera gucciniana.
E anche la musica parla di questo, anche attraverso i riferimenti a generi diversi, andando a completare una maturazione stilistica iniziata tanti anni prima. Personalmente, Stagioni mi ha sempre ricordato molto Signora Bovary… ho sempre pensato a Primavera ‘59 come a un sequel di Scirocco, non solo per l’influenza di Flaco Biondini, che di entrambi i brani ha composto la musica. Poi, un brano da te citato, Un giorno, dedicato a sua figlia Teresa, è il naturale capitolo due di Culodritto, scritta sempre per lei tredici anni prima.
La mano del produttore Renzo Fantini, a differenza del suo predecessore, si sente nella sua assenza. Fantini lasciava piena libertà espressiva ai musicisti, intervenendo soltanto con la “gomma”, come ci dice Marangolo nel libro, per cancellare le tracce in eccesso.
Infine, in Stagioni, inizia a farsi più consistente, anche in fase di scrittura, il ricorso ai collaboratori: oltre alla penna musicale di Flaco, ci sono quelle di Ligabue, e della coppia Giuseppe Dati-Goffredo Orlandi per Don Chisciotte. E poi, quel ritratto sulla copertina rossa, quell’inno a Che Guevara… davvero un gran disco…
Il dubbio sulla legittimità della canzone come forma artistica autonoma, emancipata dalla poesia, è stato ormai scacciato definitivamente dal professor Stefano La Via, dell’Università di Pavia. Per valutare le canzoni, ha sviluppato una forma di analisi poetico – musicale, che collega sistematicamente gli elementi peculiari del testo poetico con quelli del testo musicale. Ma, come il mottetto, la sonata, lo strambotto e gli altri generi musicali del passato, anche la canzone (pure non “d’autore”) è destinata a durata in eterno nel mercato, o ha una data di scadenza, per quanto riguarda la sua popolarità? Si immagina se e con cosa potrebbe venire sostituita?
Sì, dici bene… gli studi di Stefano La Via, penso in particolare al suo Poesia per musica e musica per poesia, inquadrano con molto acume il rapporto tra musica e parola dal medioevo a oggi. Osservando il bilanciamento tra questi due elementi si possono analizzare diverse forme espressive, dal madrigale gesualdiano al melodramma sei-settecentesco, fino alla canzone d’autore italiana, e alle sue “sorelle” europee, nordamericane e brasiliane.
Sono tutte forme che si trasformano lentamente, e spesso sotto mentite spoglie, “per dire cose vecchie con il vestito nuovo”, per citare proprio Guccini. Ciò che conta è che la parola, nella canzone, è sempre parola cantata. Il suo significato non si esaurisce nell’interpretazione del testo, e neppure in quella della musica. È piuttosto un’equazione, nella quale entrano in gioco anche altre incognite: l’interpretazione, la produzione, la diffusione e soprattutto la ricezione.
Quanto alle date di scadenza… nulla dura in eterno, nel mercato… ma per fortuna i classici hanno la capacità di resistere bene alle mode passeggere, in tutte le arti. E Guccini è sicuramente un classico. La sua popolarità potrà anche essere altalenante, in futuro, ma non il valore del suo messaggio.
Grazie al suo saggio, si fa finalmente luce sull’aspetto puramente musicale del repertorio di Francesco Guccini, sempre sottovalutato rispetto, ad esempio, alla musicalità di De André, più spesso approfondita in maniera tridimensionale. Spera che si apra un nuovo filone di letteratura d’analisi?
Questo filone esiste già, in generale. Anche in Italia gli studi sulla popular music hanno raggiunto uno spessore di rilievo… si pensi soltanto all’opera di Franco Fabbri, scritta per altro con uno stile letterario impareggiabile. Il problema è che un certo taglio musicologico è ancora poco appetibile per le case editoriali, che forse lo ritengono meno vendibile rispetto alle biografie degli artisti, o alle raccolte di testi arricchite da immagini e curiosità. Per fortuna ci sono le eccezioni, e mi ritengo fortunato a ritrovarmi all’interno della collana Musica Contemporanea di Mimesis. Aspetto di vedere in quale sezione sarà esposto il mio piccolo saggio, in libreria…
Guccini – Frammenti di un discorso musicale
Copertina flessibile: 196 pagine
ISBN-10: 8857571068
ISBN-13: 978-8857571065
Dimensioni: 11.2 x 2 x 17.2 cm
Editore: Mimesis (19 novembre 2020)
Lingua: Italiano
Social e Contatti
- Facebook: https://www.facebook.com/francesco.bruscoIII