Gábor Szabó. Il jazzista dimenticato (Demian Edizioni), nuovo libro del prolifico Stefano Orlando Puracchio, è la prima monografia italiana dedicata al grande chitarrista ungherese

Lo avevamo lasciato a scandagliare la poetica camp di Domenico Bini, personaggio cult del metaverso, con l’instant book Il vulcano, Schana Wana e altri mondi musicali. Autore da un libro all’anno, Stefano Orlando Puracchio — giornalista e scrittore che divide il suo tempo tra Abruzzo e Ungheria — è di nuovo in libreria con Gábor Szabó. Il jazzista dimenticato, uscito il 26 febbraio per Demian Edizioni, a quarant’anni esatti dalla prematura morte del chitarrista magiaro, scomparso a soli 46 anni nel 1982.
Una storia da raccontare, quella del chitarrista che incantò Santana con la sua Gipsy Queen. Una storia di cui, in Italia, non si era letto praticamente nulla finora. Colmare questa lacuna è il merito di Puracchio, il quale si impegna innanzitutto a ricostruire il contesto storico e geopolitico all’interno del quale il giovane Szabó giunge a maturazione. Non senza qualche concessione al cliché, come in quel «Tra Neri e Rossi è come passare dalla padella alla brace», che ricorda un po’ troppo la famigerata arringa al bar in Ecce Bombo, quella che fa esclamare a Moretti: «Ma che siamo in un film di Alberto Sordi?».
Per il resto, nelle pagine di Gábor Szabó – Il jazzista dimenticato, un po’ biografia un po’ saggio, si susseguono le tappe salienti di un’eccentrica epopea umana e musicale. Il personale si rispecchia nel collettivo: l’incontro con la chitarra nel 1950, l’ascolto clandestino di Voice of America e altre emittenti che in quegli stessi anni finiscono al bando, la rivoluzione ungherese del 1956 — con quei carri armati russi a Budapest che oggi fanno ancor più effetto — e la partenza di Gábor per gli Stati Uniti. «Dato che in Ungheria il jazz era stato politicizzato», si legge in esergo per voce dello stesso Szabó, «pensai che arrivare qui [negli Stati Uniti] e dire: “Amici, eccoci! Siamo musicisti jazz, crediamo nelle stesse cose in cui credete!”, avrebbe fatto in modo di essere accolti con le braccia aperte, Adesso so che la gente era più interessata alle cose che potevo dire sull’Ungheria e la rivoluzione. Questo ha significato, per me, il debutto musicale negli Stati Uniti».
Il successivo ingresso tra i ranghi del quintetto di Chico Hamilton, in qualità di successore di Jim Hall, è approfondito dal primo saggio interno, firmato da Toni Fidanza che assieme a Csaba Deseő, Sandro Di Pisa, Donato Zoppo (che descrive la produzione filobeatlesiana di Gabór) e Doug Payne dà voce al controcanto che si alterna all’esposizione di Puracchio, il quale prosegue raccontando la carriera solista di Szabó a partire dal 1966, le collaborazioni con Paul Desmond, Lena Horne, Ron Carter e Bobby Womack, e i tre ritorni in patria, ultimo dei quali coinciderà con la morte del chitarrista, minato dai malanni epatici e renali.
Le pagine di Gábor Szabó – Il jazzista dimenticato sono gremite di voci, non sempre armoniche nel loro addensarsi e diradarsi. Dissonanti, per restare nel campo semantico musicale, sono soprattutto alcune scelte grafiche e editoriali che precludono al libro lo status di saggio critico: perché, ad esempio, snocciolare la pur consistente bibliografia senza alcun ordine alfabetico né cronologico?
In conclusione, un’esplosione un po’ fuori schema, una jam session su carta percorsa tuttavia da un tema avvincente, che riempie quelle lunghe battute lasciate in bianco da una letteratura cui finora era sfuggito un soggetto così originale. Si può dire del libro ciò che di Szabó e della sua opera scrisse Ian Carr: «Non tutto funziona, ma quando funziona il risultato è elettrizzante».