É uscito Riding Monsters, il nuovo album di Henry Beckett, di ritorno dopo la pubblicazione del primo EP Heights nel 2017. Noi lo abbiamo intervistato, curiosi di capire come si sta a Milano e quale fascino avessero per lui gli Stati Uniti.
Nove tracce che solcano le onde dell’universo introspettivo e profondo di Henry Beckett. I testi dei brani hanno una forte ispirazione autobiografica e delineano un chiaro ritratto della personalità del cantautore “milanese ma di anima americana”.
Henry è alla ricerca del suo posto nel mondo ed è in lotta costante con le difficoltà che fanno da freno al raggiungimento dei suoi obiettivi. Nonostante questo, in brani come “Riding Monsters”, “Some People Get Lost” o “Blackbird” ciò che viene messo più in luce non è la frustrazione dovuta ai numerosi ostacoli, ma la voglia di conoscersi anche attraverso tali difficoltà in modo da familiarizzare con esse per trasformarle in qualcosa di positivo per sé.
Vince dunque la forza e la voglia di rialzarsi sempre, combattendo il più possibile contro la rassegnazione e il senso di impotenza che spesso ci portano a rimanere seduti ad aspettare che sia il caso a spostare i nostri binari sul tracciato giusto. È proprio questo il pensiero che viene rappresentato nella foto di copertina, in cui primeggia, appunto, il bisogno di reagire prendendo il controllo degli eventi.
Ciao Henry Beckett e benvenuto sulle nostre pagine. Cosa c’è di “anima americana” a Milano? Ci sono dei luoghi che ti hanno accompagnato durante il tuo percorso di formazione musicale in tal senso?
A Milano purtroppo direi ben poco, anche se è la città in cui sono nato e cresciuto e non posso che volerle bene. Però è pure vero che sento spesso il desiderio di respirare aria d’oltreoceano dove, almeno musicalmente, mi sentirei più a casa. Ciò che mi ha accompagnato nel comporre è da ritrovare, quindi, più nei miei ascolti musicali e nei miei viaggi on the road che ho sempre fatto fin da piccolo con quegli stessi sottofondi a fare da colonna sonora.
E, al contrario, sei mai stato negli Stati Uniti? Erano come ti aspettavi dal punto di vista del tuo immaginario?
Ci sono stato solo in due occasioni, sia in un viaggio itinerante in macchina sulla costa est, sia per visitare New York. Nel primo ero molto piccolo e il mio immaginario musicale era ancora troppo limitato. Mentre, per quanto riguarda la grande mela, devo dire che quando la incontri per la prima volta hai la sensazione di varcare un portale per un’altra dimensione. All’inizio è stato abbastanza ansiogeno come impatto: la maestosità dei suoi grattacieli ti fa sentire piccolo come una formica, quasi un puntino insignificante. Poi però, quando inizi a navigarci, sembra che tu abbia tra le mani il mondo che hai sempre fantasticato guardando film e serie e anche ascoltando molta musica americana. Non credo che il mio mondo musicale appartenga del tutto alla grande metropoli, però spesso mentre passeggiavo lì ascoltavo molti brani che hanno ispirato i miei ed era a dir poco suggestivo.
Questo immaginario viaggio on the road che sembra accompagnare il tuo nuovo album Riding Monsters, è avvenuto davvero? Ce lo racconti? O come te lo immagineresti?
Non è ancora avvenuto ma continuo a desiderarlo. Immagino un viaggio coast to coast in direzione ovest, alla ricerca di spazi dagli orizzonti lontani, di luoghi selvaggi, desolati e con poche strade per gustare un po’ di solitudine. Vorrei saper già cavalcare un cavallo per esplorare il Colorado e il Wyoming come se fossi in un film o in un videogioco stile Red Dead Redemption. Vorrei poi arrivare sulle coste californiane, bere birra guardando i surfisti cavalcare le onde perché io a farlo sarei troppo scarso, e ascoltare altri suonare la chitarra per assaporare un tocco musicale diverso dal nostro. Vorrei un attimo dimenticarmi della mia vita milanese per scoprire qualcosa di nuovo da riversare poi nei testi che andrei a scrivere.
E nel processo produttivo, quali differenze ci sono state tra la conclusione di Heights, il tuo EP d’esordio, e Riding Monsters, il tuo nuovo album?
Entrambi i dischi hanno a loro modo affrontato particolari sfide che a volte mi stupisco abbiano superato. “Heights” è stato costruito quasi per intero per poi venire distrutto e ricostruito da capo per mie necessità e gusti artistici. È stata una scelta molto difficile perché immaginavo la mia prima esperienza discografica come qualcosa di unicamente appagante. Invece è stata un’esperienza anche molto dolorosa, ma che ha avuto un buon epilogo grazie anche al produttore Stefano Elli che insieme a me ha preso in mano i brani nelle ultime fasi. Tra l’altro, “Heights” è stato prodotto nel 2016 ed ero sicuramente musicalmente e professionalmente più acerbo, ma ogni passo compiuto mi è servito per capire tante cose sia di me stesso che del mestiere. La produzione di “Riding Monsters” ha avuto invece qualche rallentamento iniziale perché io e il mio precedente team abbiamo intrapreso strade diverse. Tuttavia, ciò mi ha portato a conoscere Max Elli a cui ho presentato le mie canzoni iniziando in breve tempo a produrle. In questo caso il processo è andato liscio come l’olio dal primo momento. Più tempo invece ci è voluto a produzione ultimata.
E il percorso di questo nuovo disco inizia nel 2019. Cos’è successo fino a questo, incredibilmente lontano, 2023? E durante la pandemia?
Come dicevo, la fine della produzione di “Riding Monsters” si è scontrata con una serie di dinamiche proprie del mondo discografico ma anche dovute al terribile periodo che abbiamo vissuto con la pandemia.
Infatti, diversamente dalla mia prima esperienza con “Heights”, mi ero deciso a trovare un’etichetta discografica che credesse nel progetto. Questo solitamente richiede una quantità di tempo e di pazienza incredibili, che la pandemia non ha fatto che amplificare. Lo sforzo è stato ripagato quando ho poi firmato con CRAMPS Music. Da lì abbiamo pubblicato i singoli fino ad arrivare all’album. In tutto questo tempo, inoltre, ho scritto anche nuovi brani che spero tanto di produrre presto.
E ora che è tutto finito, sia la produzione del disco, che la pubblicazione che una pandemia globale. Che cos’è rimasto?
In realtà c’è ancora molto da mostrare, più di quello che ho pubblicato ad oggi. Innanzitutto, ho un live pronto in diverse formazioni: solo, duo, trio. Il trio è stata una novità presentata al release party del disco e portarlo in giro per l’Italia, ma anche fuori, sarebbe il mio primo obiettivo. Dopodiché ci sono ancora tantissime nuove canzoni che tengo nel cassetto e che ogni tanto porto anche ai live. Loro non aspettano altro di entrare in studio ed evolversi in nuove future release.
Cosa potresti avere in comune con Bruce Springsteen, Ryan Adams e Jonathan Wilson, che leggiamo tra i tuoi riferimenti?
Il grande spirito intimista che si ritrova nel tipo di scrittura e nel modo di usare la voce, la grande attenzione per la melodia, e il bisogno fervente e romantico di viaggiare con la mente saltando di volta in volta in ogni galassia emotiva possibile.
Che cosa ha in programma adesso Henry Beckett?
Possibilmente organizzare un tour per fare conoscere questo disco e il mio progetto. Vorrei passare da questa fase per poi rientrare in studio per continuare questo folle viaggio cavalcando mostri.
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