Spinning Rainbow è il nuovo EP di Horus Black, al secolo Riccardo Sechi. Il disco, composto da cinque brani, cerca di riproporre sonorità e tematiche che riportino al rock anni ’60 con un approccio che guarda alla modernità. L’abbiamo incontrato e intervistato
Ciao Horus Black, bentornato e grazie per il tempo che ci dedichi. E’ da poco uscito il tuo disco Spinning Rainbow, ci puoi raccontare qualcosa su di esso?
Ho iniziato scrivere i pezzi per questo EP 4 anni fa, infatti la prospettiva era quello di inciderlo nel corso del 2020, ma le circondante pandemiche hanno fatto slittare tutto, fino ad arrivare ad oggi. Passando al lato meno pratico e più artistico, questo disco è da intendere come la naturale prosecuzione del primo, “Simply” uscito nel 2018, che era fortemente ispirato dalla musica anni ’50, mentre “Spinning Rainbow” è più incentrato sugli anni ’60. Nell’ottica di una trilogia ho già scritto un terzo disco, praticamente già concluso, che si baserà sul decennio ancora successivo, i ’70. Per questo motivo i brani di “Spinning Rainbow” derivano dall’ascolto dei Doors, i Turtles, i Rolling Stones, i Cream, ecc.
Il disco è influenzato dal rock anni ’60, così come il precedente invece traeva spunto da quello anni ’50. Come mai questa passione per la musica di quegli anni nonostante tu sia poco più che ventenne?
Provenendo da una famiglia di musicisti classici, madre e padre violinisti e nonno Aterno trombettista, per tutta la mia infanzia ho ascoltato principalmente musica classica, soprattutto quella solistica per violino e l’opera lirica, di cui tutt’ora sono appassionato. La svolta avvenne poi quando avevo 14 anni e con i miei genitori decidemmo di ascoltare dei CD che giravano in macchina da almeno 6 anni senza che mai venissero considerati. Si trattava di una compilation best of di artisti rock’n’roll anni ’50 che mio padre aveva acquistato in un autogrill in Francia. Scoprii così Gene Vincent, Fats Domino, Chuck Berry, Little Richard, Jerry Lee Lewis e, soprattutto Elvis Presley, che mi folgorò. Approfondito per bene quel periodo musicale, mi sono allargato a macchia d’olio ai decenni successivi, seguendo, in realtà abbastanza involontariamente, un percorso cronologico, che si è dimostrato però molto utile da un punto di vista pedagogico, permettendomi di capire i vari passaggi che hanno portato alle fasi della musica rock.
Nel tuo EP Spinning Rainbow ci sono anche alcuni riferimenti letterari… sei un assiduo lettore? chi sono i tuoi autori preferiti? Ci sono altre forme d’arte che apprezzi particolarmente e che ti sono d’ispirazione?
Effettivamente leggo molto, soprattutto saggistica filosofica, linguistica e psicologica. Detto così mi rendo cono che possa non apparire particolarmente avvincente e non posso affermare che lo sia, ma io li trovo interessanti. Leggo, in misura minore, anche romanzi e biografie di artisti, musicali in particolare. Nella fattispecie i testi che mi hanno influenzato in questo EP sono “Così parlò Zarathustra” e “La nascita della natura” di Nietzsche, “Le porte della percezione” di Aldous Huxley e “The Psychedelic experience” del trio Timothy Leary, Ralph Metzner e Richard Alpert.
In misura minore, dopo musica e letteratura, sono influenzato dal cinema, ma non lo inserirei fra le mie principale influenze musicali, mentre da quel mondo attingo con piacere, logicamente, quando bisogna pensare allo sviluppo di uno nuovo video musicale. Per esempio il mio prossimo videoclip, che sarà quello del brano “The Monster”, si ispira al film “Sei donne per l’assassino” di Mario Bava, del 1964, uno dei miei preferiti.
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Generalmente come nasce l’idea per un nuovo disco o una nuova canzone?
L’idea di questi dischi è nata con la volontà di creare una sorta di percorso cronologico di rielaborazione dei vari stili di rock, dagli anni ’50 ai ’70, che possano avvicinare anche ragazzi della mia età a questo tipo di musica e spingerli ad approfondire, come io stesso ho fatto.
Parlando invece dei singoli brani, la quasi totalità dei miei pezzi nasce da uno spunto musicale, intorno al quale strutturo armonia ed inseguito arrangiamento. Infine scrivo le parole, che cercano di seguire il modo della parte musicale. C’è da specificare che l’idea musicale può essere influenzata dalla volontà di ricreare una determinata atmosfera o concetto. Un raro esempio di canzone che ho iniziato dal testo è proprio la title track del disco: “Spinning Rainbow”.
Una domanda d’obbligo: da dove viene il tuo nome d’arte Horus Black?
Horus deriva dal fatto che mio nonno materno, appassionato di antico Egitto, aveva scherzosamente proposto ai miei genitori di chiamarmi così, come nome di battesimo. I mei declinarono l’offerta, ma io recuperai l’idea e la riciclai in campo artistico. Deciso il nome ero alla ricerca di una sorta di cognome, che volevo che fosse un colore, ma molti più che ad un cantante facevano pensare ad un pacchetto di sigarette: Horus Red, Horus Blue, “Scusi mi da un pacchetto di Horus Gold?”. Black invece suonava bene e mi convinse anche il fatto che entrambi i nomi fossero di cinque lettere.
Hai mai pensato di cantare un giorno in italiano?
Ogni tanto ci penso, ma ritengo che dovrei leggermente variare il mio stile musicale. Non stravolgerlo, ma apportare leggere modifiche, soprattutto melodiche, pensando alla differente fonazione e sillabazione tra l’inglese e l’italiano. Come diceva Nino Ferrer ne “La pelle era”: “L’italiano non funziona per questa musica qui!”.
Come descriveresti la tua musica con 3 parole/ aggettivi?
Direi: rielaborazione, storicizzata e facciamo accattivante, una botta di vita.
I progetti futuri di Horus Black?
Per ora cerco di suonare in giro il più possibile per proporre i nuovi pezzi. Poi, a fine estate, inizierò a muovermi attivamente per cercare di realizzare il terzo album di cui già ho parlato.
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