Out of Africa è il titolo scelto da DeaR, acronimo di Davide Riccio, artista di lungo corso, che nel suo ultimo lavoro propone ben 19 brani che affondano le radici tra rock ed elettronica. Un po’ Depeche Mode prima maniera, un po’ Chick Corea di Elektric Band memoria con un pizzico di David Bowie dei tempi d’oro qua e là. L’abbiamo incontrato e intervistato…
Ma Out of Africa di DeaR è anche un titolo che per i cinefili rimanda a quel capolavoro diretto da Sydney Pollack nel 1985 che per i più va sotto il nome di “La mia Africa” con una strepitosa Meryl Streep e un gigantesco Robert Redford. Un film che è stato candidato a ben 11 Oscar e ne ha portati a casa 7 tra cui il miglior film e la miglior regia. Se non lo avete visto, recuperatelo: merita.
Ciao DeaR, due parole su di te per introdurti ai nostri lettori…
Ciao lettori di Blog della Musica, ciao Anna e grazie per questo spazio dedicatomi. A 55 anni, dopo circa quarant’anni di musica e altre varie incursioni nel mondo letterario, giornalistico, radiofonico, cinematografico… ci sarebbero tante cose da dire, ma anche umilmente no, soprattutto se devo farne una mia autopresentazione. Preferisco lasciare a ciascuno il saperne di più, se ne ha il desiderio, cercando da sé quel che sia trovabile. Quello che non lo è, non merita evidentemente – o non ancora – di essere conosciuto o riconosciuto.
Come è nato questo tuo lavoro, perché “Out of Africa”?
Ho cominciato a lavorare su Out of Africa nel mese di aprile del ’21 durante un lungo periodo di malattia. E vi ho lavorato velocemente, terminandolo a giugno, mentre usciva il mio precedente doppio cd “New Roaring Twenties – Human Decision Required” pubblicato dalla New Model Label. L’ho pensato come potesse essere il mio ultimo lavoro e “what’s done is done”, quel che è fatto è fatto. L’Africa e il simbolico sankofa (go back and get it!) sono serviti per guardarmi indietro a riassumermi il passato fino alle radici e ricomprendermi così da riprendere in qualche modo un controllo più lucido sul presente e sull’eventuale futuro. Ho esplorato molta musica, ma prima di allora avevo per lo più ignorato quella africana; e questo è stato un ulteriore stimolo, avendo io bisogno di misurarmi con ogni genere musicale che provenga da ogni parte del mondo o della storia, anche se non mi piace, così da conoscere anche qualcosa di nuovo di me. E la musica africana e afroamericana è nondimeno alla base di gran parte di tutta la musica pop moderna. Per l’occasione ho anche rispolverato alcuni brani del passato. L’unica composizione pensata a parte è stata la “Habanera” per due pianoforti, fatta in gennaio. Ricordavo ancora le due battute estratte a caso durante un esame di compositore non trascrittore dato a Roma alla SIAE nell’85. Allora improvvisai su quel tema, ma non piacque alla commissione. Mi invitarono a fare altro, dicendomi che quanto appena fatto da me non c’entrava nulla. Io mi piccai, ripetei esattamente quanto fatto prima. L’esaminatore ne fu molto infastidito e mi diede un’ultima opportunità. Gli dissi che tanto avrei rifatta la stessa cosa e me ne andai. Ovviamente non lo superai. Su quelle prime sette note mai dimenticate, 26 anni dopo, ho dunque rifatto idealmente quell’esame e riaverne ragione.
C’è infine il discorso delle diaspore e degli emigranti. Vengo da una famiglia di antica discendenza normanna da sempre costretta appunto a emigrare, dispersa tra gli Stati Uniti d’America, l’Inghilterra, la Francia, la Svizzera e avanti. Dago, Garlics, Ritals, Maccaroni, Schinkenbrotli (“panini al prosciutto”) o “salamettischellede (“affetta salami”) sono solo alcuni dei nomignoli spregiativi che abbiamo collezionato per il mondo. “Out of Africa” è l’ipotesi della prima migrazione umana dall’Africa, dove si originò l’uomo stesso, avvenuta da 1 a 2 milioni di anni fa. Quindi vorrei ricordare, anche un po’ provocatoriamente a tutti i razzisti e xenofobi (e ancora incredibilmente ne esistono!) che all’inizio del viaggio umano fummo tutti neri, né mai abbiamo smesso tutti di emigrare. Un giorno dovremo farlo anche verso nuovi lidi cosmici.
19 canzoni sono veramente tante per un unico album, qualcuno lo avrebbe proposto come un doppio, qualcun altro forse ne avrebbe fatti direttamente due. Tra l’altro 19 è un numero dispari, perché non 20?
Sofffro di horror vacui, che in psicologia è detto anche cenofobia, o la paura del vuoto. Nell’arte definisce l’atto di riempire l’intera superficie di un’opera. Scherzi a parte, voglio sfruttare al massimo la capienza potenziale di un supporto perché produco molto fin dai primi anni ’80 e ho un archivio di canzoni e musiche decisamente abbondante. Prima di andarmene, mi assilla il bisogno di dare a tutte le mie composizioni, anche del passato rimaste inedite, la possibilità almeno una volta di uscirsene dal cassetto (negli ’80 avrei detto dalla “cassetta”). Non condivido l’attuale trend di pubblicare soprattutto singoli o mini-album, men che meno nel solo regno del digitale insostanziale. Oppure può essere un problema di troppa generosità, quella magari un po’ patologica che ha a che fare con qualcosa che, da qualche parte nella vita, mi fu negato. Amore? Comprensione? Ascolto? Chi sa?
Quali sono i tuoi punti di riferimento musicale?
Ho ascoltato e collezionato di tutto. Come forse saprai, io stesso scrivo di musica e intervisto molti artisti per Kult Underground. E ho lavorato a lungo anche in radio, proponendo programmi attraverso i quali credo di aver ripercorso la musica dalla preistoria al futuribile. Quindi non lo so più. Tutto infine si dirama, si innerva, crea sempre più sinapsi. Da ragazzo ti avrei risposto con più precisione, facendo qualche nome dei più importanti per me. Ma oggi per me non ha più senso, soprattutto perché ormai ho un esserci a modo mio, e siano piuttosto gli altri a scorgerne eventuali riferimenti suscitati. Posso però dirti i nomi di quattro artisti pop-rock che per me sono in cima a tutto: David Bowie, David Sylvian, Brian Eno, Kate Bush.
Tra synth e linea di basso a farla da padrone sono soprattutto le percussioni che in alcuni brani come ad esempio I am from Babylon incalzano in maniera prepotente. Come è nata questa canzone di DeaR?
I am from Babylon affronta due o tre argomenti diversi. Intanto è un reggae, genere che a me generalmente non è mai piaciuto, ed è quello che riaffermo anche nel testo. I don’t like reggae music, senza aggiungere quel I love it dei 10CC di Dreadlock Holiday. Ma questa cosa, come già detto, mi stimola semmai a cercare di capire meglio le ragioni per cui qualcosa non mi piace, a scoprire meglio dall’interno, quindi dalla parte di autore o creatore, eventualmente anche a ricredermi, a cambiare qualcosa di me, a farmi piacere cose diverse e prima scartate, allargando prospettive e possibilità. Facendo sempre le stesse cose nello stesso modo non potrei imparare niente di nuovo. Avevo già scritto tuttavia un brano di genere reggae nell’86, Bring about a change, che ho recuperato per questo disco. I am from Babylon è un pezzo sulla superficialità occidentale quando adotta culture lontane o loro parti, io stesso nell’affrontare l’Africa, per farne una mia propria ibridazione. Il fatto stesso di dichiararmi provenire da Babilonia è una presa di posizione distaccata rispetto alla nostalgia per Sion come Terra Promessa, patria ancestrale africana, e quindi con la religione rastafariana, che non potrei abbracciare davvero in quanto occidentale (e lo stesso potrei dire di musulmanesimo, buddhismo eccetera… fatico già con il cristianesimo e il cattolicesimo peculiari della nostra cultura fin dalla nascita). Sion è vissuta in opposizione a Babilonia, che nella Bibbia è il luogo della cattività babilonese e nella teologia rastafariana assume quindi il significato della società occidentale tutta. I don’t like reggae music / and why should a white man do it?.
Ed è un testo sulla mia personale opinione che l’Africa non sarà mai unita, né si libererà mai dall’occidente o non solo; di questi tempi anche in Africa sta infatti avanzando massicciamente la Cina, che vi ha già insediate più di diecimila sue aziende. Né l’Etiopia sarà mai davvero alla testa di questa utopia rastafariana e panafricanista. Tra le utopie etiopi accenno tra l’altro ad Awra Amba, una comunità fondata sui valori della giustizia, dell’uguaglianza e della solidarietà, che rifiuta la logica del profitto e del predominio ma che è stata da sempre ostracizzata dal paese, perché non cristiana né musulmana.
Nel 2021 era uscito un doppio cd “New Roaring Twenties / Human Decision Required”, sei un artista molto prolifico quali sono le tue ispirazioni?
Più che ispirazioni si tratta invece di una mia necessità: creare con la musica e le parole è stato da sempre un mio bisogno che dovrei piuttosto indagare attraverso una lunga e approfondita psicoterapia, o una psicanalisi… A volte ho degli “insight” irrazionali e fortuiti che devo quindi sviluppare, altre volte è semplicemente un sedersi alla scrivania o al piano. Nasce tutto velocemente, entro una giornata, spesso come si suol dire “a tavolino”, tra una associazione e l’altra in modo non sempre lineare, ma quasi più “frattalico”, scegliendo o definendo via via un argomento che mi consenta di studiare qualcosa e scavarvi, stanarvi qualcosa che plachi la mia inquietudine di sapere e rielaborare dal mio punto di vista, che cerco di mantenere sempre in evoluzione.
Quali sono i tuoi progetti musicali per il futuro?
A gennaio ho terminata una suite di 13 brani classicheggianti dedicati alla mia città dal titolo Mon Turin, che si può ascoltare su soundcloud. Poi ho già diversi brani per un paio di prossimi cd, di cui uno di collaborazioni con altri gruppi e musicisti. Vorrei però soprattutto riuscire a pubblicare le centinaia di inediti ancora che ho raccolto dagli ’80 in poi. Ma ora devo innanzi tutto superare un intervento per un grave ulteriore problema di salute e riallungarmi la aspettativa di vita. Quindi, chissà?
Ascolta il disco di DeaR su Spotify
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