Abbiamo incontrato Kublai cantautore che ha pubblicato di recente il suo primo disco omonimo. Un’immersione profonda in un mondo di strani personaggi lontani (non a caso, Kublai Khan è il nome dell’erede di Gengis Khan con cui si identifica l’autore), perdite e dolori. Un alternative rock a cui non siamo abituati, e di cui abbiamo voluto parlare direttamente con lui.
Ciao Teo, Kublai, grazie per aver accettato quest’intervista. Come stai?
Grazie a voi. In questo periodo ho molto tempo da dedicare alla musica, e ciò mi fa stare bene.
Ascoltando il tuo disco, è davvero difficile collocarlo. Possiamo parlare di cantautorato alternative? C’è qualcuno che fa qualcosa di simile, per influenze o contenuti, a quello che fai tu?
Preferisco lasciare a chi ascolta le analogie, non riesco ad isolare una somiglianza specifica con altri artisti. L’unica cosa di cui sono abbastanza certo è che Kublai è un ensemble di elementi eterogenei, perciò può essere definito in molti modi, anche in contrasto tra loro. “Cantautorato alternative” è uno di questi, anche se – tecnicamente – questo disco non è il prodotto di un arrangiamento di qualcosa precedentemente scritto, come da tradizione cantautorale. Qui scrittura e arrangiamento sono coetanei, sono la stessa cosa.
Come hai conosciuto la storia di Kublai Khan?
La figura di Kublai, nella sua versione romanzata, l’ho incontrata da adolescente ne Le città invisibili di Italo Calvino, tuttora uno dei miei libri preferiti. Solo successivamente mi sono documentato sul personaggio storico e sulle sue vicissitudini, ma qui la cosa conta poco. Kublai è una suggestione, l’idea di una discontinuità, del mio voler fare le cose diversamente da come si fanno o, almeno, di come le ho sempre fatte io.
La melodia al primo posto, eppure il testo sembra essere sommerso. E’ così che volevi che suonasse il tuo disco, oppure è qualcosa che è uscito fuori per caso?
Questa è una bella domanda, perché mi consente di sbrogliare il grosso equivoco della musica nostrana, secondo cui la melodia è sinonimo di testo. Non è esattamente così, la melodia resterebbe melodia pure se cantassi versi senza significato. In Italia, un po’ per l’ingombrante tradizione letteraria, un po’ per “colpa” dei cantautori, che in altri anni (e a ragion veduta) l’hanno mortificata per mettere al centro il testo, la melodia viene concepita solo ed esclusivamente al servizio del testo. Questo diventa un problema perché ci si priva di uno strumento espressivo: anziché avere testo e melodia, disponiamo solo del monolite testo-melodia. Sto semplificando, ma il concetto è questo. Siamo un po’ tutti come dei vecchietti che tendono l’orecchio perché “non capiscono le parole”. Non un’immagine molto progressista della cultura, ma tant’è. In questo senso, il testo sommerso in Kublai, è un fatto voluto, direi quasi provocatorio.
Come nasce un brano del cantautore Kublai?
I brani di questo disco sono nati a quattro mani, le mie e quelle di Filippo Slaviero. Personalmente, prima che un autore, mi considero un cantante, un performer; per questo vivo la creatività come un gesto estemporaneo, improvvisato. Il poter improvvisare sullo stimolo di un’altra persona mi dà una grande libertà di espressione, e amplia notevolmente gli esiti possibili. Scrivere da soli è pur bello, ma dopo un po’ si diventa ridicoli.
Questo è probabilmente uno degli ultimi album che abbiamo ascoltato nel 2020. Che cosa ci ha lasciato di quest’anno stranissimo?
Kublai è un disco malinconico, ma non passatista. Spero quindi possa aver lasciare una malinconia utile, un desiderio di bellezza.
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