La diffusione della musica come avviene? Negli anni il modo di diffondere la musica ha subito cambiamenti radicali. In questo articolo vediamo alcuni aspetti della diffusione musicale che vanno dalla radio ai jukebox, alla televisione, al cinema, a youtube…
Dopo aver affrontato i supporti “materiali” attraverso cui una canzone può essere fissata, riprodotta in serie e venduta al pubblico (cilindri, dischi, nastri magnetici e cd), ora passiamo ad occuparci dei canali (i media) attraverso cui questi supporti, per così dire, “viaggiano”: in poche parole, dopo aver parlato della distribuzione, raggiungiamo il regno della diffusione della musica.
Musica da ascoltare: la radio
La radio è inventata da Guglielmo Marconi nel 1894: inizialmente gli apparecchi possono propagare solamente segnali codificati (i “bip” dell’alfabeto Morse), ma ben presto il sogno di diffondere nell’etere suoni e parole diventa realtà. Nella notte di Natale del 1906 l’inventore canadese Reginald A. Fessenden trasmette, da Boston, un breve discorso, legge un passo della Bibbia, esegue qualche melodia di violino, e accende il suo grammofono. È il primo caso documentato di trasmissione a distanza di voce umana e di musica: ma, per quanto avveniristica, resta una bizzarria senza esito.
Per tutti gli anni Dieci la radio è intesa esclusivamente come un sostituto del telegrafo, destinato alle comunicazioni marittime e militari: ma, dopo la Prima Guerra Mondiale, il vento cambia. Molti giovani, che hanno acquisito sul campo le necessarie cognizioni tecniche, si dedicano alla realizzazione di piccole stazioni trasmittenti (nel 1918, i radioamatori sono già più di diecimila) e si lanciano in nuovi esperimenti.
Quasi per gioco, nel 1919, un giovane di Pittsburgh mette davanti al microfono del suo apparecchio radio un fonografo, e trasmette alcuni brani. La risposta degli ascoltatori casuali è entusiastica, e la Westinghouse Electric si offre di finanziare il progetto: dietro al microfono della neonata KDKA radio siede il proto-dj Frank Conrad, che conduce le trasmissioni intercalando brani musicali a notizie di cronaca.
La corsa alla radio si fa frenetica. Nei soli Stati Uniti, dai cinquantamila apparecchi per uso domestico del ’21, si passa al milione e mezzo del ’24; e le sessanta stazioni del ’21 nel giro di tre anni diventano oltre millecento, tutte finanziate dalla pubblicità. Nel 1928, con la comparsa della NBC e della CBS, nascono i primi network a vocazione nazionale.
Negli anni Venti, la diffusione della musica per radio è quasi esclusivamente prodotta dal vivo: registrazioni di concerti di sala mandate in onda in differita, oppure di contest radiofonici country (i “radio barn dances”). La trasmissione di dischi è un fatto raro: i discografici temono che gli utenti, potendo ascoltare le canzoni gratuitamente, non comprerebbero più i loro prodotti.
Non passano che due lustri, e siamo già in un altro mondo: la Crisi imperversa, le vendite dei dischi sono al minimo storico, e la radio diventa la principale fonte d’intrattenimento a basso. Quasi naturale, allora, sfruttare le onde medie come mezzo di promozione: la programmazione comincia così ad alternare le sempre popolari esibizioni live con la diffusione di dischi… Un’abitudine che non cesserà più, e che guiderà i dj delle radio indie del dopoguerra nel lancio della moda che sconvolgerà per sempre lo scenario del pop mondiale: il rock’n’roll.
Ascolto condiviso a pagamento
A fine ‘800, la radio non esiste ancora. Eppure il bisogno di ascoltare musica popolare in modo contemporaneamente personale e collettivo, sfuggendo ai riti della borghesia altolocata, è ben presente. Ecco quindi nascere i primi tentativi di creare piccoli punti di ascolto pubblici: e che, perché no, permettano agli editori di farsi pubblicità e guadagnare qualche dollaro.
Pianole a monete e jukebox
Fra i primi esempi di diffusione della musica troviamo apparecchi automatici per l’ascolto pubblico a pagamento di canzoni troviamo la pianola a moneta: una pianola a rullo attivata dall’introduzione di qualche spicciolo nel meccanismo. Nel 1890 Glass e Arnold brevettano il fonografo a moneta: basta un nickel, e l’apparecchio attiva la riproduzione di un cilindro di cera, diffuso al singolo ascoltatore da un tubo acustico. Questi congegni sono pensati per lo sfruttamento pubblico: bar, negozi, rassegne e fiere.
Al passaggio dal cilindro di cera al disco si accompagna l’invenzione di un dispositivo per la diffusione pubblica più flessibile e al passo coi tempi: il jukebox. Questo “basso armadietto” riproduce dischi e canzoni in base alla scelta del cliente e all’inserimento di una moneta, e le diffonde al pubblico presente. Dal primo prototipo (1918) alla produzione in serie passano nove anni: e il fenomeno esplode. Dai primi esemplari di legno si passa a impianti più moderni, decorati con plastiche illuminate e con tutte le caratteristiche di un oggetto di consumo. Ogni anno un nuovo modello invade le scene, e scalza quello dell’anno prima: la febbre è così alta che, pur di far spazio ai nuovi prototipi, sono letteralmente mandati al macero centinaia di apparecchi ancora funzionanti.
Dal Dopoguerra il jukebox, sostenuto da un battage pubblicitario senza tregua, diventa il simbolo della voglia di divertimento dei teen-ager: il “Wurlitzer 1015”, con la scocca universale e la sommità ad arco, diventa il modello per eccellenza, e soppianta i vecchi esemplari con linea squadrata. Nel 1949 arrivano jukebox con una capacità di duecento vinili e in cui – questa volta grazie alla Seeburg – i nuovissimi e più maneggevoli 45 giri sostituiscono gli ormai sorpassati 78 giri in gommalacca.
Il jukebox, fino a circa metà degli anni Settanta, è il mezzo di ascolto collettivo preferito dai ragazzi di mezzo mondo, e uno straordinario elemento di socialità e di costume: ruolo destinato a ridimensionarsi drasticamente a causa degli apparecchi casalinghi (come il mangiadischi e il riproduttore di cassette) che, alla portata di tutte le tasche, spostano fra le mura domestiche la pratica della condivisione delle canzoni, dei balli e delle feste. Il jukebox imbocca così una strada in ripidissima discesa: come un avventore abituale che nessuno ha il coraggio di cacciar via, rimane collocato nell’angolo meno illuminato di qualche bar di paese, per poi sparire completamente verso l’inizio degli anni Novanta.
Video-musica
I primi tentativi di offrire una rappresentazione visiva personale a pagamento di una canzone risalgono all’inizio degli anni Quaranta, e replicano il principio del jukebox. Il Soundie (detto anche “Panoram visual jukebox”) consente la selezione sequenziale di brevi filmati in bianco e nero (di solito d’ambito jazzistico), proiettati su uno schermo posto alla sommità dell’apparecchio. I problemi non sono pochi: il monitor è costoso e ingombrante, le pellicole rare, e dopo un breve periodo di gloria, nel 1946 il Soundie è già tolto dalla produzione.
L’idea è recuperata dall’archivio nel 1958, in Francia, con l’ideazione dello Scopitone (e, in Italia, dal simile Cinebox): un video-jukebox con pellicole a colori. Nonostante una buona diffusione iniziale, le star a frequentare questo territorio sono poche (Telstar, Procol Harum e Nancy Sinatra)… Anche perché, nel frattempo, Hollywood e gli studi tv hanno preso coraggio, e stanno progettando format espressamente dedicati alla musica giovanile: chi potrà mai fermarli?
Musica da vedere
Ormai è per noi naturale, quando sentiamo una canzone, immaginare una sua raffigurazione visiva: tutti, ad esempio, abbiamo ben presente cos’è un videoclip. Ma quando è nato questo connubio? E quando, soprattutto, questo è divenuto un qualcosa di programmato ed esteticamente rilevante?
Il cinema
Da sempre il cinema ha richiamato, preteso, quasi sospirato la presenza della musica: l’accompagnamento dei film muti con performance dal vivo (solitamente di un pianista), è un espediente vecchio come il cinema stesso, e dura sino al 1927: anno in cui, con “The Jazz Singer” di Alan Crosland, ha luogo la proiezione del primo film parlato della storia.
Il linguaggio cinematografico che con più spontaneità riesce a dialogare con la libertà e l’astrazione della musica – più che il film narrativo – è però il cartoon. Max Fleischer, fra il 1929 e il ’38, realizza una serie di corti d’animazione molto originali (“Screen Songs”), che anticipano il karaoke di almeno quarant’anni: sul testo della canzone, impresso sulla pellicola, si agita al ritmo della musica la “palla che rimbalza” (“bouncing ball”), che avanzando a tempo indica al pubblico la corretta metrica. I primi corti d’animazione Disney (le “Silly Symphonies”, 1929-‘38) includono illustrazioni animate costruite intorno a brani pop/jazz o strumentali: dalla pratica delle “Sinfonie allegre” nascerà il lungometraggio “Fantasia” (1940), insuperato esempio di fusione fra partiture classiche e cartoon.
Con questi esperimenti, e con il perfezionamento tecnico del cinema sonoro (che, ricordiamo, suscita fra l’altro la nascita del disco a 33 giri), la canzone acquista un ruolo può complesso: da sottofondo estemporaneo diventa una estetica indispensabile, progettata da autori professionisti e integrata nella scrittura.
Il musical cinematografico rappresenta il culmine di questo disegno: un progetto estetico complesso in cui la canzone è, al tempo stesso, il motore dell’intreccio, un modo per agganciare il cuore dello spettatore, un veicolo pubblicitario del film, e un prodotto che – pubblicato come singolo o colonna sonora – proprio il film contribuirà a far conoscere e acquistare.
La televisione
Verrebbe quasi istintivo pensare che la televisione segua le stesse orme del cinema: eppure, nei primi anni, la musica sul piccolo schermo non ha vita facile. Inventata dell’americano Philo Farnsworth nel ’27, e alla ricerca di una legittimazione culturale, la tv per alcuni anni evita la musica leggera, preferendo trasmettere estratti operistici o esecuzioni classiche.
La diffusione della musica sul piccolo schermo inizia a manifestarsi grazie a talent show amatoriali (il più famoso è il “Ted Mack’s Original Amateur Hour”, 1948), come intermezzo fra chiacchierate con ospiti speciali e scenette a carattere comico. Agli ospiti è vietato ricorrere al catalogo della conservatrice ASCAP: il tutto a vantaggio della rivale BMI, e degli artisti country e rhythm’n’blues.
Alla fine del 1950 sulle tv di New York, Chicago e Los Angeles, per mano di “video dj” come Al Jarvis e Wayne Howell, compaiono i primi programmi pensati specificamente per la canzone leggera: brevi strisce con balli, giochi a tema musicale, sketches e canzoni in playback, e che aprono la strada a format più strutturati.
Sui grossi network l’attenzione è invece concentrata sul pop istituzionale, e fino a metà decennio di rhythm’n’blues nessuno vuol sentire parlare. Sotto la pressione degli inserzionisti, interessati al montante mercato dei teen-ager, nel ‘55 il vento inizia a cambiare: “The Tonight Show” di Steve Allen (1954-’57) dà ospitalità al jazz, “Toast of the Town” di Ed Sullivan accoglie diversi cantanti di pelle nera come Cole Porter, W.C. Handy e T-Bone Walker e, con l’aiuto del dj Dr Jive, propone al pubblico i giovani e aggressivi Bo Diddley e LaVern Baker.
Il 26 Gennaio 1956 Elvis Presley debutta a “Stage show” (CBS), condotto dai fratelli Dorsey, cui seguono le apparizioni nei programmi di Milton Berle, Steve Allen e Ed Sullivan. Il rock’n’roll è arrivato in televisione, con tutto il suo inevitabile codazzo di polemiche, scandali, prese in giro e censure: e nessuno può evitare il confronto. “Rock’n’roll show” della ABC (4 Maggio 1957), condotto da Alan Freed, è il primo format in prime time dedicato alla musica dei ribelli.
Da questo momento, la tv affianca – e poi supera – la radio come strumento di diffusione della pop music, e ne ripete fedelmente le titubanze, i successi e i cambi di passo: a volte accettando un ruolo subalterno di striscia pubblicitaria, e altre ponendosi alla guida del cambiamento. Tutto può trovare spazio: il country&western (“Ozark jubilee” e “The Tennessee Ernie Ford Show”), il pop istituzionale dei teen-idol (“American Bandstand” del potentissimo e subdolo Dick Clark), il Folk Revival (“Hootenanny”), il Soul (“Shindig!”) e la reazione conservatrice (“Sing Along with Mitch” di Mitch Miller, una rivisitazione televisiva degli “Screen songs” di Max Fleischer). A seguito dell’emersione delle nuove mode, la “musica seria” esce definitivamente dai palinsesti generalisti, per rifugiarsi in speciali a tema.
Il 9 Febbraio 1964 i Beatles sbarcano all’Ed Sullivan Show, seguiti da circa 73 milioni di spettatori: fra i tanti “inizi” della British Invasion, questo è senza dubbio il più importante ed evidente… Segno di come ormai la forma video stia diventando un elemento fondamentale per il lancio e la divulgazione di mode e prodotti seriali.
Uno dei più famosi e riusciti eventi tv di questi anni è il “T.A.M.I. Show” (1964), prodotto dalla ABC, che annovera fra i partecipanti la crema del rock, fra cui Chuck Berry, Bo Diddley, i Rolling Stones, i Beach Boys, le Supremes, Marvin Gaye e James Brown. Altri speciali passati alla storia sono il documentario “The Beatles at Shea Stadium” (trasmesso a Maggio 1966 dalla BBC) e “Elvis”, dedicato al ritorno sulle scene di Presley (Dicembre 1968).
Il T.A.M.I. Show contagia anche il cinema e apre virtualmente la strada a un nuovo sottogenere, il Concert Film: una pellicola costruita su riprese di concerti, backstage, raduni, prove, incisioni e interviste, aventi per centro focale un gruppo o una rock-star. Numerose le declinazioni possibili: il film concentrato sulla performance, e quello che cerca di penetrare negli umori dei partecipanti; quello che ricostruisce un evento di massa da un’ottica sociale e mediatica, e quello che guarda alla rock-star come fenomeno spiccatamente divistico; quello che, quasi ininterrottamente, si limita a riprendere il palco, e quello che invece costruisce un montaggio con interviste, dichiarazioni del pubblico e sound check. I titoli più famosi sono “Dont Look Back” (sic, 1967), “Monterey Pop” (1968), e “Gimme Shelter” e “Woodstock” (1970).
Con la British Invasion, la domanda di canzoni si impenna, e non sempre il nuovo materiale basta a soddisfare la fame di musica dei teen-ager. Il cinema ha contribuito, con titoli come “Rebel Without a Cause” e “The Blackboard Jungle”, a portare sullo schermo le nuove generazioni e la prima colonna sonora rock’n’roll: al loro seguito, una serie di pellicole a tema come “Don’t Knock the Rock” e “Go, Johnny go!”, la sterminata filmografia di Presley, i beach-party movies di Frankie Avalon e Annette Funicello, e soprattutto i film-Beatles di Richard Lester (“A Hard Day’s Night” e “Help!”)… Lavori che attingono al lessico delle recenti avanguardie cinematografiche, con tanto di sceneggiature surreali, montaggio alternato, contrasti fra piani, e riprese con angolature non convenzionali.
Promo e clip
Affinché il connubio fra canzone pop, pubblicità e video decolli definitivamente, occorre che i media moderni prendano l’iniziativa. A partire dal 1965, grazie al linguaggio scattante e disinibito proposto da Richard Lester, si manifesta un nuovo modo di realizzare i promo musicali: una grammatica che – come testimoniato dai clip a colori di “Strawberry Fields Forever” e “Penny Lane” (regia di Peter Goldman) – gioca disinvoltamente con slow motion, reverse recording e filtri colorati.
Per integrare la titubante promozione televisiva, i rocker iniziano ad appoggiarsi a filmati promozionali ad hoc: fra gli esempi più famosi citiamo i Pink Floyd di “Arnold Layne” e “The Scarecrow”, “I Can’t Explain” dei The Who, e i Rolling Stones (con “Have you seen your mother, baby, standing in the shadow?” e “2000 light years from home”).
Il clip in bianco e nero di “Subterranean Homesick Blues”, per la regia di D.A. Pennebaker, è uno dei filmati musicali più intelligenti e innovativi della storia: raffigura Bob Dylan mentre sfoglia a ritmo una serie di cartelli di grandi dimensioni, che illustrano e richiamano parti della canzone.
La fatale attrazione per il video cresce e si rafforza negli anni Settanta, grazie ad artisti che con il multimediale intrattengono un rapporto privilegiato e istintivo: David Bowie (regia di Mick Rock) pubblica i clip di “The Jean Genie”, “Space Oddity” e “Life on Mars?”, e i Queen ingaggiano Bruce Gowers per realizzare un clip – destinato al format inglese “Top of the Pops” – tratto dal singolo “Bohemian Rhapsody”… Un filmato interamente girato e montato su videotape, e i cui effetti speciali sono stati realizzati in fase di ripresa.
Dal videoclip a Youtube: la diffusione della musica liquida
Col termine “videoclip” si intende un breve filmato (a volte coreografato) prodotto per promuovere una canzone. Nella forma moderna il clip cerca di commentare visivamente la canzone con modi meno didascalici e più personali. Alcuni clip (recitati talvolta dagli stessi protagonisti) si comportano come brevissimi film narrativi, illustrando passo passo quanto detto dalla canzone: altri, più “astratti”, tralasciano il racconto per intessere rapporti di montaggio con la musica, basati principalmente sul ritmo e il sound.
Vi sono molte ipotesi su quale sia il primo videoclip della storia: ma se per videoclip intendiamo un filmato linguisticamente evoluto, non piattamente illustrativo e diretto alla promozione mezzo tv, non possiamo che spostarci all’inizio degli anni Ottanta: quando, con la nascita della statunitense MTV, si pongono le basi per una trasformazione radicale del legame fra televisione e canzoni, e per la realizzazione di un altro canale di diffusione della pop music.
Mtv (acronimo di Music Televison) è una rete a tema dedicata alla trasmissione a ciclo continuo di video musicali, 24 ore al giorno per sette giorni alla settimana. Il primo clip è mandato in onda il 1° Agosto 1981, ed è Video Killed the Radio Star degli inglesi Buggles, per la regia di Russell Mulcahy: scelta intelligente, profetica e ironica, che sfrutta un successo del ’79 ancora in voga e che – nel testo e nelle immagini – narra proprio di una “stella della radio”, messa in crisi dall’avvento della “musica da vedere”.
L’idea è una bomba – i singoli di Men at Work e Human League, pubblicizzati in tv ma ancora fuori dal circuito radio, vendono a palate – e l’industria sembra impazzita: bisogna a tutti i costi colonizzare l’etere. I grandi network si attrezzano per progettare programmi contenitore a tema, come “Video jukebox” della HBO, “Night tracks” della WTBS e “Friday night videos” della NBC: a beneficiarne sono un po’ tutte le pop star del tempo, ma soprattutto gli americani Michael Jackson e Madonna, e i “New romantic” inglesi Duran Duran, Culture Club, Spandau Ballet e Talk Talk.
Col diffondersi a macchia d’olio della promozione video, il clip si evolve rapidamente e acquista specificità linguistica. Il video più rappresentativo di questi anni è sicuramente “Thriller” (1983) di Michael Jackson, diretto da John Landis: una mini-opera di 14 minuti, con tanto di trama horror, prologo, balletti e musica, che stabilisce nuovi standard di costo (circa 800.000 dollari), e apre le porte alla collaborazione con autori cinematografici di grido. La performance di Landis è presto imitata da registi di primo piano come Martin Scorsese (“Bad” di Michael Jackson), Spike Lee (“Cose della vita” di Eros Ramazzotti) e David Fincher (“Vogue” di Madonna).
Dopo un ventennio di grandi fortune, l’era della musica da vedere trova nuovo impulso nelle tecnologie digitali e nella rete Web. Napster, il sistema di sharing peer-to-peer attivo tra il 1999 e il 2001, permette la condivisione di file video fra utenti registrati: rivoluzione completata dal lancio della piattaforma free YouTube (2005) e delle sue innumerevoli imitazioni. Grazie a questi sistemi moltissimo materiale audiovisivo diventa improvvisamente accessibile a una platea potenzialmente infinita di utenti: sul “tubo” si trova letteralmente di tutto, registrazioni storiche e nuovissime uscite, produzioni mainstream o casalinghe, interi album o brevi frammenti, filmati ufficiali o riprese di fortuna… È davvero un mondo nuovo.
L’ultima frontiera – almeno nel momento in cui scriviamo – è rappresentata dal commercio on line di file digitali: nel 2003, con la nascita dell’iTunes Store – di proprietà Apple – la vendita di musica e canzoni ha iniziato a seguire le fluide e fulminee strade del web. Gli album in formato cd sembrano mantenere le posizioni: non sempre un semplice download può esaurire la gamma di contenuti assicurati da un prodotto fisico… Ma i “singoli” su supporto materiale hanno perso qualsiasi interesse, se non quello collezionistico.
Più che gli studi critici, sono i dati di mercato a dare il corretto polso della situazione. A partire dal Gennaio 2005, Billboard ha integrato la classifica dei singoli più venduti nei negozi con i dati del commercio digitale. Solenne e paradigmatica la dichiarazione che accompagna l’analoga decisione della Federazione Industria Musica Italiana (2008), e che suona come una sentenza: “Dal 45 giri in vinile si è passati al cd singolo, e ora al supporto «liquido»”. E, aggiungiamo noi: sempre meno i teen-ager che si avvicinano a un album (e poco importa se fisico o digitale) rispettandone la natura di oggetto estetico compiuto, e sempre più quelli che scaricano copie pirata, che archiviano migliaia di canzoni su hardware di archiviazione esterni (come la chiave usb) o su cloud, e che vivono la musica come un “flusso” di canzoni da combinare liberamente, senza rispettare una sequenza precostituita o un progetto artistico. Nessun moralismo, beninteso: ma la constatazione che un’era sta finendo, e un’altra è appena iniziata.
A cura di Francesco Chiccoconti
Supporti Musicali, Fonti
- Musica e Memoria.it (Internet). Disponibile all’indirizzo: http://www.musicaememoria.com
- Wikipedia (Internet). Disponibile all’indirizzo: https://en.wikipedia.org/wiki/Wikipedia
- ERNESTO ASSANTE, FEDERICO BALLANTI, La musica registrata, Roma, Dino Audino Editore, 2004
- BILL BREWSTER, FRANK BROUGHTON, Last night a DJ saved my life, tr.it., Roma, Arcana, 2007
- PAOLO PRATO, Sociologia della musica registrata dal fonografo a internet, Ancona-Milano, Costa & Nolan, 1999