Le ceneri del prog. Quel che resta di un genere della popular music. Nuovo saggio di Mattia Merlini per la collana Le Sfere dell’editrice LIM
Inizia con un’immagine, Le ceneri del prog. Camicie sbottonate su petti villosi, una palma, il mare al tramonto. Una copertina tremenda che non lascia presagire nulla di buono neanche all’ascolto, se non brevi canzonette espressamente concepite per un facile successo radiofonico: l’uscita di Love Beach — ultimo album in studio di Emerson, Lake & Palmer — segna la data di morte del rock progressive, 18 novembre 1978. Morte apparente. Sembra essere questa la diagnosi di Mattia Merlini, giovane musicologo proveniente dall’Università di Milano che in questo libro si sofferma su tutta la produzione musicale considerata progressive a partire dalla fine del periodo classico di quel genere: Le ceneri del prog, appunto.
Morte annunciata, nondimeno. Merlini ha il merito di riaprire l’inchiesta, finora appagata dalla condanna in primo grado: un unico assassino, il punk, la cui ascesa era iniziata almeno due anni prima di Love Beach. La storia, come sempre, è assai più complicata. Restando nel campo dei generi musicali, se il punk può essere esecutore materiale, non mancano certo i complici. Il pop mainstream, contrario per definizione a ogni cultura di genere; la disco-music, che rimette al centro la fisicità, in contrasto con l’assoluta mentalità del prog; la new wave, altra modalità di ritorno alla semplicità (a tal riguardo Merlini cita inoltre la particolare derivazione della New Wave of British Heavy Metal).
Ma ci sono anche moventi economici: l’autore ci ricorda quanto la crisi del 1973 renda la vita difficile a quella fetta di consumatori nella quale convergono i maggiori acquirenti di dischi, mentre contemporaneamente la tassazione britannica spinge molti musicisti all’esilio, non solo geografico ma anche sociale e culturale. Alla fine degli anni Settanta, l’industria discografica inglese non potrà che contare i caduti: 20% di introiti in meno rispetto a inizio decennio. Infine, un aspetto mai troppo sottolineato, l’accanimento della critica musicale, per la quale il rock deve tornare alla semplicità e all’autenticità che il prog, capriccio borghese, ha distrutto.
Eppure, in maniera sotterranea, quella «bestia con molte teste» (Chris Anderson dixit) continua ad andare avanti, in vari luoghi e in molti modi. Le ceneri del prog restano nell’aria, dando inizio di lì a un lustro a una prima rinascita, apparente quanto la scomparsa: Il 1983 è l’anno dell’esordio discografico dei Marillion, Script for A Jester’s Tear. Da quel momento, quelle ceneri si aggregano in due forme peculiari: il neoprogressive — revival del sound progressivo degli anni Settanta, in particolare del rock sinfonico di matrice britannica — e il post-progressive, definito dal giovane studioso come «l’insieme di tutte le manifestazioni prog contemporanee (incluso il neoprogressive) che si riferiscono più o meno esplicitamente al progressive storico». E in tali manifestazioni finiscono per rientrare nomi insospettabili, quali Opeth, Muse, Björk e addirittura Radiohead.
La prima corrente è ossessionata dalla conservazione delle spoglie mortali di una specifica incarnazione del prog classico (dimenticandone tuttavia l’impulso estetico e ideologico); l’altra è legata invece all’attitudine di quello stesso tipo di musica, di cui però mutano le sembianze: Kate Bush, Peter Gabriel, i nuovi King Crimson, alcuni degli araldi di questo secondo indirizzo. Una polarità che non manca di riflettersi nella ricezione: anche il pubblico si trova diviso in due fazioni, entrambe in un certo senso accontentate.
Prima rinascita, dicevamo, perché di nascite, rinascite e reincarnazioni ce ne sono state numerose. Incarnazioni più o meno popolari, come il prog metal che nasce ufficialmente negli anni Novanta con i Dream Theater, dopo diversi anni di corteggiamento reciproco. «Un brodo culturale comune», dice l’autore. Incarnazioni ibride, come il post rock, che al di là dei divergenti esiti sonori del prog mantiene la stessa volontà di espandere il linguaggio dall’interno, capovolgendo alcune logiche tipiche del rock.
Le ceneri del prog è un saggio davvero ottimo, che per la prima volta cerca di dissezionare il genere a partire dal suo canone e dalle sue caratteristiche, ricomponendo il punto di vista del pubblico, dei mediatori e degli studiosi. Merlini decostruisce la narrazione ufficiale della “morte e rinascita del genere” riconcettualizzando il discorso in modo da spiegare in che modo una comunità intera di musicisti e ascoltatori possano intendersi su cosa sia progressive e cosa no, pur in mancanza di definizioni coerenti. Si analizzano le testimonianze dell’epoca, si indaga su cosa differenzi il prog da qualsiasi altro tipo di popular music, si teorizzano forma e sostanza dell’attitudine prog partendo dal concetto postmoderno di “simulacro”, la «verità che nasconde il fatto che non ne ha alcuna» per dirla con Baudrillard. Il tutto utilizzando strumenti metodologicamente eterogenei (teorici, storiografici, etnografici) ed evidenziando l’interazione tra fenomeni sociali e musicali, in un’epoca in cui il concetto stesso di genere musicale inizia a perdere gran parte del suo significato originario.
Le ceneri del prog, preziosissimo contributo italiano a un’indagine ancora in fieri, si pone l’obiettivo di «rileggere il fenomeno del progressive alla luce della contemporaneità, dando centralità a ciò che resta del prog successivamente alla sua presunta data di morte — insomma, alle sue ceneri, difficili da ricomporre, informi, eppure memori della propria incarnazione originaria». Un’incarnazione nebulosa, sfuggente, una bestia che ha ancora tante teste, magari soltanto incanutite.
Le ceneri del prog di Mattia Merlini
Editore: Casa Ricordi (1 gennaio 2021)
Lingua: Italiano
Copertina flessibile: 286 pagine
ISBN-10: 8881920816
ISBN-13: 978-8881920815
Peso articolo: 437 g
Info e Contatti
- Website: https://www.lim.it/it/le-sfere-ricordi-lim/6069-le-ceneri-del-prog-9788855430661.html