Brian Eno ha fatto un giro a New York, probabilmente insieme a Patti Smith, ed è incappato in un locale dove Lydia Lunch, Tom Verlaine e James Change si esibivano. E fu no wave…
Quando si pensa al binomio donna e rock il pensiero vola a Patti Smith. Infatti durante il nostro viaggio, io e Silvia abbiamo pensato subito a Patti. Ed abbiamo scritto e pubblicato un articolo su di lei. Silvia ha detto le due parole del binomio ed io, con riflesso quasi pavloviano, ho proferito nome e cognome della sacerdotessa del punk.
Un’ombra sul volto di Silvia. Troppo scontato avrà pensato. Troppo scontato ho pensato.
Ma il flow aveva preso il sopravvento ed articolo su Patti fu.
Ripensandoci si sarebbe potuto far di meglio. Osare, per esempio.
E parlare di una donna che da metà degli anni 70 mi turba ed emoziona. Mi ammalia (si, proprio come Amelia, la strega di Disney) e mi delizia. Mi sconvolge e mi vizia. Signore e signori, quella che andiamo a raccontare è la storia di Lydia Lunch.
Una storia d’arte e depravazione che ha come teatro la città di New York. Siamo nel 1976, il malessere generazionale, postumo dell’egemonia flower-power, sta prendendo precise sembianze, generando nuovi codici. Giovani che, come destandosi da un sonno indotto, improvvisamente e traumaticamente guardano diritto negli occhi una realtà in disfacimento. Avanza una contro-cultura urlata, riottosa a ogni invito all’ordine. Portavoce della presa di coscienza e del nichilistico rifiuto a qualsiasi forma di allineamento culturale, diventano personaggi che hanno i nomi di Richard Hell, Patti Smith, Tom Verlaine ed il profeta: Lou Reed.
Questa miccia genera interessanti mostri. I Ramones, i Reds, i Suicide, i Devo, i Pere Ubu, i Residents, i Tuxedomoon, solo per citarne alcuni.
Per far conoscere al mondo questo universo serve qualcuno che riesca a mettere ordine. E questo qualcuno esiste, vive e lottava insieme ai Roxy Music. È Brian Eno, investigatore dei meandri orgogliosamente disinteressati a qualsiasi forma di auto-promozione. Con la pubblicazione di No New York libera da ogni parentesi di auto-referenzialità un nugolo di artisti o aspiranti tali rimasti ai margini della scena underground di New York. L’atonalità, il rumore, la nevrastenia, in taluni casi vera e propria psicopatia sono gli strumenti in uso per lanciare una sfida a quella che può esser definita la tradizionale struttura-canzone I protagonisti della negazione di ogni traccia di armonia, melodia, ordine sono Arto Lindsay fondatore dei DNA, i Contortions, i Mars. E Lydia Lunch, giovanissima madre del movimento No Wave.
Lydia Lunch inizia a muovere i primi passi in ambito musicale, appena diciassettenne, nel 1976, come chitarrista e cantante, nei Teenage Jesus And Jerks, accanto al sassofonista James Chance. Impone da subito la sua già ben definita e spiccata personalità, divenendo leader del gruppo, oltre che autrice dei testi. Nel 1979 riescono a pubblicare l’album omonimo nel quale la voce della Lunch si fa urlo straziante, su ritmiche prive di una qualsiasi forma di linearità e levità, le sono chitarre distorte, stridule, dall’energia ancora punk.
Lydia, irrequieta e geneticamente instabile, nel 1978 incontra il misconosciuto Bob Swope, cantante che, con risultati non sempre felici, cerca di trasformarsi nel suo alter ego maschile, giocando anch’egli al bambino bistrattato dal mondo l’anno successivo nasce il progetto parallelo Beirut Slump, nel quale la nostra suona la chitarra, generando flashback di violenti incubi.
Dopo questa parentesi, Lydia comprende di essere nella condizione di incidere un disco solista. È il 1980, quando, per la Triple X, esce su vinile la prova del suo passaggio da bambina imbronciata a donna capace di sedurre e ammaliare l’ascoltatore: Queen Of Siam, realizzato con l’orchestra di Billy Ver Planck. Mechanical Flattery, bellissima traccia d’apertura, nel quale la bimba, superata la necessaria fase di pianto, si siede spossata a raccontare ciò che le è successo, a cui si alternano prestazioni da vera femme fatale di fumosi jazz club; l’atmosfera si fa confidenziale in Carnival Fat Man, canzone dispiegata su un organetto quasi da saloon; l’album si chiude con Blood Of Tin, inquieto ricordo dell’incubo iniziale, gioco in crescendo di archi e fiati.
Nel 1981 fonda gli 8 Eyed Spy, con cui dà vita a performance di rock adrenalinico, supportata da un organico di tutto rispetto: Pat Irwin alla chitarra, Jim Sclavunos alla batteria e l’ex Contortions George Scott al basso. Con questo gruppo passa dalle rocambolesche e divertite cavalcate hard-rock di Diddy Wah Diddy, Love Split With Blood, Motor Oil Shanty ai toni carichi di positiva energia di Lazy In Love, episodio di riuscitissima sintonia tra voce e strumentazione.
L’antologia Hysterie, edita per la Widowspeak, fondata da Lydia nel 1984, raccoglierà, nel 1986, la produzione degli 8 Eyed Spy, insieme alle esperienze dei Teenage Jesus And Jerks e dei Beirut Slump.
Anno 1982, pieno dilagare dark-wave: Lydia, meno esteta di Siouxsie, più sfacciata di Diamanda Galas, partorisce una nuova, oppressa creatura, con i restanti Weirdos, incide 13.13, parentesi asfittica e depressa. L’album concede al cantato il meritato spazio: sinuose ballate avvolte al basso (The Side Of Nowhere), dilatazioni come flussi di coscienza nell’evanescente Suicide Ocean e nelle rallentate sincopi di Lock Your Door, entrambe premonizioni di certe atmosfere dei futuri Dead Can Dance.
Nello stesso anno nascono collaborazioni dagli effetti veramente sinistri: Lydia incide The Agony Is The Ecstasy, atmosferica e sulfurea traccia della durata di quasi 20 minuti, con Steve Severin dei Siouxsie And The Banshees alla chitarra.
L’attrazione di Lydia per le tenebre è una via del non ritorno. Con In Limbo, disco del 1984, arricchito dal basso di Thurston Moore, l’insinuazione nel torbido prosegue, sciogliendosi in estasi ipnotica con su un sax a disegnarne i contorni nell’aria
Nello stesso anno Lydia partecipa al progetto Death Valley 69, dei Sonic Youth, comparendo, inoltre, nell’omonimo, devastante video.
Il seguito è sperimentazione. Al pianoforte e alla chitarra in Drowning Of Lucy Hamilton, in compagnia dell’ex Mars con cui concepisce temporali sonori e vortici cerebrali in apparente stato di quiete. Insieme ai Birthday Party fa uscire Honeymoon In Red, contenente una versione vischiosa e crepuscolare di Some Velvet Morning di Nancy Sinatra. Non si nega lo scandalo con Stinkfist, la cui title track è delirante viaggio nella pulsione sessuale, di gemiti e suoni elettronici che mettono in scena senza pudore il coito tra Lydia e Foetus, alias Clint Ruin, all’epoca suo compagno. Con Kim Gordon, le cui tracce ritroviamo in Naked In Garden Hills, Lydia torna a incidere solo nel 1991, affiancata dall’ex Birthday Party, Rowland Howard.
Solo con Shotgun Wedding si ha una boccata d’aria. Il cantato torna nei ranghi, lucido e consapevole, per dar vita a un rock grigio, ballate dark a due voci (Endless Fall), reminiscenze di bassi e chitarre stile Cure con sofferte introspezioni dagli esiti quasi gothic (Incubator).
La prima parte degli anni 90 si articola in produzioni di spoken word.
Nel 1998 viene registrato Matrikamantra, edito soltanto tre anni dopo, suggestiva opera attraversata da defilati jazz, sensuali sonnambulismi raccontati dal pianoforte, cerebrali confessioni elettroniche, profani flamenco inneggianti a Cagliostro e chiusure apocalittiche
L’incursione in territori sonori mai sperimentati prosegue con Champagne, Cocaine And Nicotine, mini album registrato con gli Anubian Lights, nel 2002. Il disco è ben combinato nella fusione tra voce, e intermezzi elettronici spaziali e sognanti
Smoke In The Shadows (2004) è il primo album solista del nuovo millennio, contenitore dei più disparati e ben congegnati spunti, a conferma della straordinaria versatilità e predisposizione al nuovo. Lydia appare più rilassata, perfettamente a suo agio nei panni della jazz-singer sorniona
In Big Sexy Noise, nome che funge da titolo e ragione musicale del progetto, la Lunch compie un viaggio a ritroso nel rumore perduto, in compagnia di altri reduci della grande stagione del rock alternativo degli anni 90, i Gallon Drunk: James Johnston alla chitarra, Ian White alla batteria e Terry Edwards, organo e sax.
Prima di tutto c’è il blues. Poi c’è il punk, e poi c’è l’interpretazione della Lunch, con voce sempre più bassa, vetrosa, gracchiante. E poi il noise: la distorsione, il filo spinato dei feedback, il sax quasi free che sfregia i riff monolitici e fa da controcanto alla Lunch.
Il secondo capitolo del progetto Big Sexy Noise, Trust The Witch (2011), rappresenta la sua incarnazione più aggressiva e sfrontata. Non ci sono fronzoli né preliminari: Ballin’ The Jack e Cross The Line sono puro delirio hardcore, con il sax di Edwards ridotto a brevi urla impazzite e la Lunch che sputa oscenità nelle sue nuance più scure e malefiche.
A giugno 2014 esce A Fistful Of Desert Blues, che ripropone la collaborazione tra Lydia Lunch e Cypress Grove (Tony Chmelik), musicista britannico al fianco di Jeffrey Lee Pierce a cavallo tra fine ottanta e inizio novanta. Una partnership nata nel 2006 proprio per omaggiare il lavoro dell’indimenticato leader dei Gun Club, allorquando Chmelik radunò un “cast stellare” (Nick Cave, Debbie Harry, Iggy Pop e molti altri, tra cui appunto la Lunch) per il suo Jeffrey Lee Pierce Session Project.
I brani di A Fistful Of Desert Blues sono sorretti da un’impalcatura che vede protagonisti la voce graffiante della Lunch e la chitarra di Chmelik. Il blues di Lydia e Cypress Grove prende forme molteplici: ballad lunari (l’amore born-to-lose narrato in When You’re Better), folk desertico (Devil Winds, Revolver, Beautiful Liar), arriva a costruire una piccola epopea western-crepuscolare (I’ll Be Damned, Jericho).
Il finale è riservato ai brani più “movimentati”, ove più che mai risuona la passione dell’ispiratore Jeffrey Lee Pierce.
E in questi giorni circola un disco che raccoglie le performance dal vivo. Rintracciatelo, fatelo vostro e suonatelo, senza dimenticare che il rock non è un affare per soli uomini. Non lo è mai stato, non lo è e non lo sarà.
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