Il pianista Manuel Magrini ha pubblicato il nuovo album Dreams per la Encore Music. Prodotto da Roberto Lioli e Vittorio Bartoli presso il LoaDistrict di Roma. Dreams è un lavoro che svela in maniera quasi caleidoscopica la pulsante vena creativa di Magrini che per l’occasione si è avvalso del prezioso contributo di Francesco Ponticelli al contrabbasso e Bernardo Guerra alla batteria. Ecco la nostra intervista
Banvenuto su Blog della Musica a Manuel Magrini. Innanzitutto complimenti per il disco, Dreams il primo album che ascolto nel 2021. Che dire? Un ottimo modo per iniziare l’anno! Ti chiedo allora quali saranno i tuoi prossimi progetti artistici. Quali obiettivi musicali ti sei posto per questo nuovo anno da poco iniziato?
Grazie mille! Senza dubbio voglio far conoscere a tutti Il progetto Dreams, ma soprattutto non vedo l’ora di suonarlo dal vivo. Mi manca molto l’intimità con il pubblico presente davanti a un palco. Oltre a questo, che è la priorità, ho anche composto moltissima musica nuova che, a tempo debito, sfocerà in alcuni progetti di cui, spero, sentirete parlare.
Ascoltando Time flow sono rimasto da subito colpito, anzi rapito, da questa ricchezza ritmica e armonica, dall’uso consapevole e originale che fai di armonie dissonanti che si sposano alla perfezione tra tempi dispari, pattern pantonali e un comping assai complesso. Qual è il tuo rapporto con il linguaggio musicale che proponi, così complesso e maturo? Da dove nasce, come si è sviluppato e poi consolidato? Quali sono stati gli ascolti determinanti che ti hanno portato a costruire un suono così personale?
Io amo fortemente ascoltare forme di musica che abbiano un alto tasso di informazioni al loro interno ma, allo stesso tempo, anche un contenuto comunicativo chiaro e dall’impatto forte. Vorrei che fosse così anche il mio linguaggio musicale.
Per quanto riguarda l’armonia, credo che un buon Voice Leading possa “giustificare” qualsiasi forma di stranezza accordale: se ogni voce fa un percorso chiaro di tensione/rilascio e atterra bene al punto di arrivo, tutto suona comprensibile e va a giovamento del racconto musicale. Per me, è stato sempre importante analizzare, improvvisare e comporre sulle armonie dei brani di musica colta che studiavo come esecutore, soprattutto Bach, Scriabin, Ravel e Shostakovich, ma anche tanti autori di musica corale.
Nel linguaggio Jazz, i miei riferimenti più grandi sono Bill Evans ed Art Tatum. Inoltre, è da un po’ di tempo che seguo Jacob Collier e studio partendo dalle sue geniali intuizioni armoniche che condivide generosamente sul web.
La mia ricerca sul ritmo, invece, si è intensificata sei anni fa, durante il mio primo viaggio a New York. Dopo quell’esperienza, mi sono concentrato molto di più sulla matrice Africana della musica jazz e ho riscoperto il pianoforte come strumento a percussione. Invece, le due influenze più importanti in questo campo sono state la musica Afro Cubana e l’estetica di Tigran Hamasyan: studiandole, ho capito che si può essere coinvolgenti ed emozionanti anche nella complessità ritmica.
Rain in Oslo offre fin da subito molti spunti sonori cui l’ascoltatore è portato a riflettere: dall’esposizione di un tema complesso in trio, ad un solo dove unico protagonista sulla scena è il pianoforte, ad un cambio radicale di prospettiva nella parte centrale del componimento per arrivare, chiudendo il cerchio al gesto meditativo iniziale. Come viene concepita questa tua composizione dal sapore modale, ma che riesce ad andare oltre i classici stilemi evitando sempre soluzioni scontate o prevedibili? Qual è il tuo modo di concepire-costruire un brano come questo dal punto di vista della scrittura? Come riesci a ottenere questa solidità strutturale nonostante i continui cambi di prospettiva musicale all’interno del brano?
Ho concepito questo brano partendo dall’idea armonica dell’intro, formata da due triadi sovrapposte in maniera speculare (come quelle su cui lavora Bill Evans in My Bells) ed incasellandole in un ritmo di 5/8. Per contrasto, nella parte centrale, ho utilizzato cicli di quattro accordi ripetuti, a sviluppo lento, facendo concentrare l’ascoltatore sul groove e guidandolo con un tema semplice. Per questo, poi, ho sentito l’esigenza di spezzare il tempo e dedicarmi solo alla varietà dei colori accordali nell’ending.
In genere, quando compongo, parto sempre da un’idea armonica o da un riff ritmico per costruire il mood e, successivamente, penso a una melodia.
Ritengo molto importante che ci sia sempre almeno un elemento (armonico, melodico o ritmico), chiaro e semplice, che possa “prendere per mano” l’ascoltatore e aiutarlo ad entrare nel racconto musicale. Questo mi permette poi di rendere più complessi gli elementi restanti. Un grande maestro in questo credo sia Paul Hindemith; penso, per esempio, alla terza sonata pianistica o quella per flauto).
Il mio equilibrio più ricorrente è quello con melodia semplice e restanti elementi musicali ricercati. Una cosa che faccio spesso è utilizzare poche cellule brevi e svilupparle (un po’ come fa Thelonious Monk con le sue melodie). Questo apporta molta solidità alla forma.
Little Lullaby chiude questo favoloso album, una pista d’atterraggio dove tutto quanto esposto in precedenza trova respiro, soluzione e riposo. Un pezzo minimalista dove pochi e significativi ingredienti armonico-melodici riescono a portare la nostra attenzione nell’ascolto fino allo spegnersi dell’ultima nota. Quali sono state le motivazioni che ti hanno portato a chiudere il disco in questo modo così raffinato? Quanto peso ha avuto in questo caso l’Interplay vissuto in studio nel modo di portare il tempo e nel vivere la melodia-armonia in questo modo così lirico e teso?
Nei miei dischi, curo tantissimo la forma della scaletta e il percorso che essa fa; mi piace iniziare in modo energico per poi salutare l’ascoltatore in maniera affettuosa nell’ultimo brano. Ho fatto una scelta simile anche nel mio primo disco Unexpected.
Nella parte centrale di A Little Lullaby, ho voluto sfruttare le enormi capacità di ascolto di Francesco Ponticelli e Bernardo Guerra, per fare un’improvvisazione di gruppo senza seguire un tempo specifico ma fraseggiando a respiri (come nel canto Gregoriano).
Il ruolo di questo brano (così come di Après un Rêve) nell’economia della scaletta, è stato anche quello di spezzare la ritmicità e la complessità formale per riequilibrare l’esperienza di ascolto e non rischiare di annoiare.
In Al di là dei sogni convivono aspetti diversi. E proprio nel sogno è possibile cogliere idee melodiche tardo romantiche quanto impressioniste rivisitate sempre in modo assai personale, elegante e moderno. Quali scelte accademico-artistiche hanno portato a evolvere il tuo stile pianistico in un naturale passaggio della musica classica al Jazz contemporaneo?
Sono nato e cresciuto come musicista, coltivando simultaneamente l’approccio creativo sullo strumento e quello da esecutore, sin da quando avevo 7 anni.
Nel mio percorso, sono stati fondamentali lo studio in conservatorio e i corsi di Ramberto Ciammarughi. Con quest’ultimo, ho studiato improvvisazione Jazz, ma è stato proprio lui a trasmettermi l’amore per la musica classica, insegnandomi a creare connessioni tra diversi linguaggi in unico flusso creativo.
Il repertorio classico è tutt’oggi fortemente presente nei miei studi quotidiani e credo che approfondirlo equivalga a conoscere la storia del proprio strumento, quindi, anche le sue possibilità espressive.
Tutto ciò mi ha portato a cercare di suonare Jazz in maniera molto “pianistica”: controllare da una a più voci contemporaneamente, sviluppare molto l’uso della mano sinistra, avere più timbri da sfruttare ed una buona escursione dinamica. Per questo, per esempio, amo tanto la sintesi pianistica fatta da musicisti come Brad Mehldau e Fred Hersch.
In questo tempo, ahimè, dove la musica soffre a causa della pandemia, come tutta l’arte e la cultura in genere, ti chiedo come vivi questo difficile momento come musicista, pianista e compositore. Di cosa avrebbe bisogno la musica in questo momento per rinascere e riprendersi ciò che le è stato tolto? Pensi che un musicista debba re-inventarsi un nuovo modo di vivere la propria professione?
Nonostante la situazione tragica dal punto di vista del lavoro, sto sfruttando questo momento per studiare tantissimo e comporre. Quindi, se non altro, sento di non perdere tempo.
Penso che ci sia bisogno di un aiuto economico che permetta ai luoghi di musica di ripartire bene e possa facilitare la vita soprattutto alle realtà più piccole; questo, inoltre, potrebbe incoraggiare gli organizzatori a investire un po’ più sui “famosi di domani” e preverrebbe molte fughe di talenti che, di certo, in Italia non mancano.
Questo strano periodo, sicuramente, ha portato sempre più i musicisti ad approfondire le potenzialità delle piattaforme web per far conoscere i propri lavori, a familiarizzare con programmi di editing e schede audio, oltre che a scoprire la didattica a distanza. Tutto ciò potrebbe integrarsi con lo stile di vita pre-pandemia e potrebbe renderlo meno frenetico per quando ripartiremo. Perciò, penso che aggiornarsi sia assolutamente vantaggioso.
Ascolta il disco Dreams di Manuel Magrini su Spotify
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