Mi commuovo, se vuoi è il disco di Mario Pigozzo Favero uscito per Dischi Soviet. Gilberto Ongaro l’ha recensito per Blog della Musica

L’esordio di Mario Pigozzo Favero alla Dischi Soviet è caratterizzato da testi che mischiano simpatia e tristezza, ma con uno stile abbastanza pungente, che altalena tra il risentito e il cinico. Mi commuovo, se vuoi è un album che musicalmente, unisce un sound pop elettronico con un approccio sperimentale e ricercato.
Come nel secondo brano, Ai defilati, dedicato “agli insicuri ai collezionisti di trofei conquistati nei tornei in periferia di pallamano”, ma anche “agli operai generici valtesi”, è sostenuta da una leggera drum machine, note gravi di pianoforte, un riff di chitarra stoppata, e quest’atmosfera notturna e ansiolitica viene introdotta da una tromba mesta. I colori sono contrastanti: c’è solennità tragica e agitazione oscura, mentre la voce si mantiene bassa e sospirata. Esperimento sonoro ad alta tensione è anche Un tale singhiozza, tra il tremolio di un hammond ed il basso, che insieme delineano un clima di suspense. Mentre Mario canta: “Non potevo immaginare che tutto ciò potesse accadere, il mattino della tua scomparsa”. Fa davvero paura questo brano, ed è il suo punto di forza.
Al contrario, La preghiera della sera è sorretta da una calda ed allegra chitarra acustica. Sembra uno di quei brani sbeffeggianti di Rino Gaetano. “Arriva il prete a benedire latrine, e a occhio ci sa fare, dita bianche affusolate, faccio un cenno, asperge anche il bestiame, tra le bestie c’è chi crede e chi no”. Tutto questo è cantato con una voce iper distorta, si sfocia nel lo-fi del primo Bugo.
Il sound lo-fi tornerà in Avvoltoi, e qui Favero canta con voce non effettata, ma resta tra il serio e il faceto: “L’amore è sospensione della volontà, aumento esponenziale delle banalità”.
Un ricercato insulto è il titolo Uno dei tanti Orfei, definendo una persona come un “circo di animali troppo triste”. La musica va nell’esilarante, col piano elettrico in staccato, a tratti la sequenza degli accordi è comica. Le parole iniziano a farsi giocherellone: “Meno male che rifai sempre gli stessi errori viola, che ci fa un leone a Aosta, o una tigre a Ortisei?”.
Si scherza, più amaramente, anche col personaggio di Franchino ’57: “Ormai sicuro torna a dirsi che se questo è un uomo, può finalmente a ragione desiderare abbandonarsi al suo amore aziendale”. Ma il rancore di Franchino esplode nel ritornello: “Spedire a farsi fottere quella stronza della moglie che non merita il suo dolore, può tranquillamente svernare in Sardegna col moccioso e con il cane”.
Ma il disco Mi commuovo, se vuoi si apre con Pornostar, che mostra una bella capacità narrativa. Inizia da una situazione abbastanza surreale, egli esce “con le pornostar”, andandoci a fare la spesa con i figli, anche se aveva promesso alla (ex) moglie di non farlo più. Occhio dell’innocenza, i bambini “amavano le mie amiche (…) il trucco ed i colori sempre accesi”. Poi emergono dei dettagli che fanno capire l’esito della situazione (“Ti ho rivisto bellissima in tribunale”), fino ad accennare ad un viaggio a Sparta, per scegliere “il punto più alto della rupe”. Il finale è lasciato intendere.
Altro pezzo da mettere in risalto è El sbrego. In dialetto veneto (Mario Pigozzo Favero è di Treviso). Son sempre contento quando qualcuno scrive un pezzo dal tono serio in veneto. Perché, mentre il napoletano ad esempio è già apprezzato sui toni drammatici, il veneto sembra sempre utilizzato solo in chiave goliardica o spiritosa. Qui invece, sopra un pianoforte teatrale si consuma una sofferenza sentimentale: “No dormo e sbufo stufo, bestemo forte, mordo i nissioi (…) no xé che la tua xé una vendeta, no xé che da consumar ingorda in pressa, una tortura così granda che bastarìa metà” [Non dormo e sbuffo stufo, mordo le lenzuola (…) non è che la tua sia una vendetta, non è che, da consumare ingorda in fretta, una tortura così grande che basterebbe metà].
Un ritmo latino simile al bossanova caratterizza Latakia, canta in falsetto una triste verità: “Chi può fa, chi non può desidera”. Altro brano del versante raffinato è L’inferno siamo noi, per pianoforte ed oboe. L’elemento pornografia entra in una riflessione esistenziale: “Cosa resterà di noi, oltre ai profili inventati, oltre alle musiche e ai cliché ai porno estremi sempre nuovi”.
Un clima post-rock ovattato apre E la nave va, immergendoci tra visioni a flusso di coscienza, tra fragilità, Fellini, “l’impulso di lanciarti dalle scale” e “l’invito al cielo di libri sepolti in una cantina”.
C’è anche spazio per il recitato, ne Il metro del sarto, ma il disco finisce con un breve bizzarro epilogo: L’orco di Sigurtà. Che contiene un’altra verità, di quelle che si sentono dire poco dai prosaici e concretissimi veneti: “Tutto ciò che assomiglia al fallimento, è così umano che si merita una seconda possibilità”.
Mi commuovo, se vuoi è un disco carico di vita vissuta e di ricerca sonora, per le orecchie che cercano i cantautori.
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