Un distinto signore che diverte e provoca, sempre con nobiltà: Gilberto Ongaro racconta di Matteo Perìfano e della sua Guerra lampo.
Matteo Perìfano è un artista sorprendente, un cantautore che incarna un distinto signore, uscito dall’Ottocento, caduto per caso nella nostra epoca. Si definisce “punk viennese”, ma punk lo è forse perché ogni tanto dice qualche parolaccia, in un contesto sonoro dove non te le aspetteresti. Le sue canzoni sono pop rock melodiche, ma contengono elementi di Lied, composizione tipica del Romanticismo tedesco. La voce, spesso derisoria e sbeffeggiante, intesse melodie orecchiabili, arrangiate in maniera graziosa ed elegante.

L’esordio arriva nel 2018 con “Uomo europeo”, e già lì gli elementi per distinguere Perìfano c’erano tutti: un nobile in lotta coi propri demoni, una burla verso i Biedermeier, una canzone che citava lo zar e una fuga a San Pietroburgo in carrozza… Il nuovo album Guerra lampo, è il lineare secondo tempo, l’evoluzione naturale dall’esordio.
“Messiah” apre il disco con un’invettiva un po’ populista, sopra chitarra con tremolo e passaggi di archi: “Non cambia il tuo Paese, sempre in crisi economica (…) E mio padre, a sera stanco per l’età, parla nel sonno di un Messia, che presto arriverà a tirare in aria i banchi, a cambiare musica. Ci sono un po’ troppi mercanti in giro, manca l’aria”. Poi “Crollo di un bar” ci proietta di fronte a un tipo che attende una persona che non arriva, davanti ad un simbolico bar. E insiste a restare là, nonostante l’edificio gli stia crollando addosso, mentre “I fiori che ho comprato han preso fuoco”. Mi vien da dire che il basso è “battiatesco”, perché mi ricorda quello di Donnarumma nel mitico album “La voce del padrone”. E in questa situazione grottesca, ecco che Perifano ci caccia la riflessione tosta: “Nel bicchiere si riflette il dramma del pensiero occidentale razionale, inadatto a misurare un fluido vivo, la realtà”.
Un brano di corsa è “La mia vita tempo fa”, in cui il personaggio emerge con forza, rimpiangendo gli anni da cui è stato estirpato: “E avevo Dostoevskij in tasca (…) Per Dio, se era meno assurda la mia vita tempo fa. (…) Ma che immensa truffa, che stronzata la modernità”. “Invasioni di Elena” invece è un tenero brano per voce e piano, con delle campane tubolari, glockenspiel e percussioni in sordina, ambientato sui binari: “Sul treno provo a leggere, ma mi perdo ogni secondo pensando ad Elena dentro me, in questo viaggio di ritorno. La sento ridere, con la sua luce intorno, invasioni di Elena dentro me”.
Ora con le prossime due si vola, preparate il cervello. Un violino che piange, come nei film di Charlie Chaplin, dà l’alba ad un grandioso brano chiamato “Il mondo come volontà e rappresentazione”. Il titolo schopenhaueriano sigilla una canzone dal vivacissimo arrangiamento orchestrale, assieme a batteria, basso e chitarra, mentre Matteo esprime una profonda tristezza: “E tornerà ad ingannarmi il sole, a volte ha senso il suo calore, a volte è meglio congelare”. La curata corrispondenza tra parole e musica arriva al massimo sul verso “E i desideri muoiono, e come d’improvviso sono strette le mura costruite da te”. Proprio qui, arriva una funerea tromba.
Dopo questa canzone immensa, esplode il rock con la batteria in levare de “Il processo”. La voce non interpreta un personaggio, bensì addirittura un’entità storico-sociale minacciosa: “Sono il processo, sono l’impero, l’impero alla fine della decadenza! (…) Sono un eccentrico impiegato delle cancellerie, che ti segue e ti ripete che stai sbagliando (…) osservo la terra andare in rovina, dispersa tra sciami di stelle nevrotiche”. Di solito cerco di restare distaccato, ma questa è pazzesca!
“Isabelle (She’s alright)” canta di Isabelle che è una fuga da questa vita, se “ti sembra un po’ troppo”. Per farlo, la canzone cita Leopardi e David Bowie, e la musica compie pure uno scherzo, una variazione musicale, annunciata da una voce telefonica automatica. Ah, e il finale di nascosto cita i Beatles. Brano post-contemporaneo!
“Parade” descrive caustica una parata che sembra non gradire (“È pieno di freak, di gente malsana, di assurdi elementi”), che per lui sono zombie: “Il Foscolo che dissotterra le salme e le invita a una macabra parade”. Tra gli zombie ci vede “turisti, maniaci e vagabondi” ma pure i neoliberisti… e in questo quadretto patetico “percepisci il cuore tuo come obsoleto, come un organo in disuso”. Ecco, finalmente capisco cosa intendeva con “punk viennese”. Qua ci siamo, come irriverenza!
“L’alienazione di Sofia” racconta una donna che è viva, ma come non lo fosse: “Il suo corpo è solo una gabbia arrugginita”, su musica leggermente sincopata; forse l’episodio più debole (o meno forte) dell’album. L’arrangiamento qua si concede un pop elettronico à la Stragà. (Non ti ricordi chi è Stragà? “L’amore è un astronauta, pappà…”)
Arpa, flauto, pizzicato d’archi, fagotto e clavicembalo compaiono in “Avamposti”, che parla d’amore in termini bellici. Il sogno d’amore è alla fine: “Il lume degli onirici orizzonti nostri è fioco ormai”. Il mandolino si inserisce nell’impianto pop rock de “Il tempo”, sotto un monito a non sprecarlo in futilità: “E il tempo no, non basterà, l’hai lasciato lì da solo ad appassire tra le ombre incerte di un futuro che sei sempre ad inseguire, per cercare la pace che in questa vita non ci sarà, e intanto il tempo va”.
E così, l’album si chiude con la breve titletrack rock’n’roll, chiusa da una rullata militare: “Le persone mi piacciono tutte, non mi piace nessuna, soprattutto quando all’improvviso gli si storce la luna. Hanno dentro militari di reggimento. Pronti per la guerra lampo la mattina? Guerra lampo! Addio mia bella addio, l’armata se ne va, e se non partissi anch’io sarebbe una viltà”.
Uno spirito ironico e al contempo profondo, quello del simpatico Matteo Perìfano. E se nel 2018, rispolverare un’epoca lontana poteva sembrare un gioco da hipster coi baffi a manubrio, ora invece con la guerra in Europa e pure il resto del mondo che vuole ancora rimbambirsi di bombe, meglio rifugiarsi nel suo sguardo “vintage”, contro l’attuale abuso di ogni “stronzata tecnologica”. Perché abbiamo bisogno solo di “fiumi d’acqua limpida”.
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