Ritmico non ritmico. Suoni, segni e memorie collettive. E’ uscito il nuovo disco di Max Fuschetto per NovAntiqua. Ecco la recensione di Blog della Musica

Esce per NovAntiqua Ritmico non ritmico, nuovo album del compositore campano Max Fuschetto.
È uno di quei lavori impossibili da interpretare per sola forza d’ascolto. Tanto meno è agevole inserirlo pienamente nella pur capiente categoria della cosiddetta modern classical.
Ritmico non ritmico, ultimo album di Max Fuschetto (pubblicato da NovAntiqua), si gioca su un’architettura di rimandi che non si esauriscono nel confronto con altre esperienze musicali, stabilendo connessioni fondanti anche con l’arte visiva.
D’altra parte, non c’è alcun desiderio di essere criptico: basta scorrere i titoli per ottenere alcune coordinate di base. La traccia n. 4, Vortex (A Jackson Pollock), posta dopo Number 1, Number 3, Number 5, non è una semplice dedica ma una intenzionale analogia con i Number dell’artista statunitense. «Siccome i primi tre brani, Number 1, 3 e 5, esplorano, partendo da pattern percussivi di matrice africana, le possibilità di costruire musica usando le risorse del ribattuto, mi sono venuti in mente gli esperimenti di Jackson Pollock in cui il pittore, colando direttamente il colore su una tela disposta per terra, sgocciola misture cromatiche formando punti e intrecci di linee usando il dripping come uno sciamano intento a gestire e controllare il caos derivante dal caso».
Ritmico non ritmico è ciò che può essere il suono, così come può essere il segno di un altro eroe dell’arte visiva del Novecento: è infatti il Rhythmisches (1930) di Paul Klee, quella scacchiera disegnata, a offrire una parafrasi per il titolo. E qui, più che un rimando è una restituzione, visto che il pittore tedesco aveva a sua volta mutuato l’idea di ritmo dalla musica, dalla visione di uno spartito.
Diceva Pierre Boulez: «il tempo è orizzontale, va sempre da sinistra a destra. Lo spazio è rappresentato dagli accordi, dalle linee melodiche, dagli intervalli, che sono altrettante divisioni distribuite, visivamente, in verticale».
Tracce fantasma nel vero senso della parola, quelle del disco di Fuschetto, sospese su tappeti elettronici e intrecci strumentali. Note ribattute, non minimaliste ma debitrici di certi schemi tradizionali africani. Evitamento della tensione armonica e controllo del timbro, dall’oboe dello stesso Fuschetto all’onnipresente piano di Enzo Oliva e alla chitarra di Pasquale Capobianco. E poi gli ospiti, Eleonora Amato e Silvano Fusco (archi), Luca Aquino (tromba), Luca Martignano (corno francese), Giulio Costanzo (marimba).
Un album concettuale, ma non solo. Dopo le dediche a Pollock e Klee non sorprende più di tanto che l’ultimo brano sia intitolato a Lucio Battisti: dal field recording catturato in una fermata della metro emerge un motivo, canticchiato quasi inconsciamente da un ragazzo.
L’orecchio del compositore si attiva, così come la sua memoria, della quale si svela la natura collettiva: «Ho notato delle similitudini nella costruzione delle frasi e nell’uso di certe armonie e ho pensato che ognuno ha i suoi maestri, impliciti ed espliciti, ed è bene non dimenticarlo».
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