INTERVISTA | DeaR: una suite di brani dedicati a “Mon Turin”

DeaR ha pubblicato il nuovo album dal titolo Mon Turin uscito per Music Force. Una suite di brani dedicati alla città di Torino e ad alcuni momenti importanti della vita dell’artista. L’abbiamo intervistato

Ciao, caro DeaR! Intanto, mi incuriosisce il tuo nome d’arte. Come nasce?

Ciao. Nasce dai dischi di una volta, sulle cui etichette comparivano le iniziali D.R., acronimo per Diritti Riservati. Quando ascoltavo i miei dischi da bambino su una fonovaligia, cominciai a desiderare di fare la mia musica, i miei dischi, e così pensavo che quelle due lettere potessero essere le iniziali del mio nome sia per gioco, sia come una premonizione. DeaR sono le lettere D.R. pronunciate in inglese, perché io ho cominciato e continuato a cantare soprattutto in inglese. Questo aka l’ho adottato solo negli ultimi anni in realtà, per ricominciare una carriera musicale decisamente nascosta, e per distinguermi da un omonimo che fa il disc jockey e produce musica EDM. In verità  mi è andata poi anche peggio, perché ultimamente mi sto imbattendo in molti altri Dear… Trovarsi un nome d’arte è dura di questi tempi. Quel che mi distingue, da questo punto di vista, è una minimale R speculata, che però è piuttosto macchinoso scrivere con la tastiera del computer. Quindi, si scrive DeaЯ. La R speculata è l’ultima lettera dell’alfabeto cirillico e si chiama “ja”, il che in lingua russa è anche il pronome personale “io”. Un detto popolare basato su questo fatto, che cioè “ja” è l’ultima lettera dell’alfabeto, viene usato per insegnare ai bambini la modestia e l’umiltà. Quindi, volendo spaccare il capello in quattro, il mio nome d’arte si dovrebbe pronunciare “DiaYa”. A parte tutto questo, che ne ho fatto praticamente un trattato, mi piace l’idea di diventare eventualmente caro a qualcuno con la mia musica. Non sono però caro nel senso di costoso, anzi… Non volendo apparire in pubblico, né fare attività live, direi che non ho bisogno di compensi. Sicuramente non potrei vivere né sopravvivere grazie alla musica, specialmente in quest’epoca di musica gratuita. Si è avverato il sogno dei ’70, quando si facevano resse e risse per entrare gratis ai concerti al grido di “La musica è di tutti” e si facevano prezzi quanto meno politici per i dischi.

Tornando ai miei dischi dell’infanzia, per ricordare quei solchi sempre più consumati e crepitanti, ho riprodotto il crepitio tipico nella berceuse dedicata alla tragedia dello Statuto. Qui, quel suono sempre odiato (e non capisco ancora oggi i sostenitori della superiorità del vinile rispetto al  compact disc), si fa come uno sfondo di neve che cade. La tragedia infatti si consumò durante una fitta nevicata e a pochi passi da casa mia in piazza Statuto.

Mon Turin prende spunto da storie che forse chi non è di Torino non conosce bene. Cos’è successo all’Angelo Azzurro e perché?

Mon Turin racchiude il ricordo della mia infanzia a Torino. Ho cercato di rievocare i primi amori musicali dell’infanzia e della adolescenza, in particolare quelli classici delle Avanguardie Storiche del ‘900, collegandoli ad alcuni momenti storici personali e collettivi. Ogni titolo è la dicitura di un genere o movimento musicale classico con abbinato un sottotitolo riferito invece a una precisa ambientazione urbana, monumentale o storica. Vi sono quindi la Torino barocca e i suoi lunghi e continui portici, il quartiere in cui vissi con la mia famiglia, il Cit Turin, detto anche il Piccolo Parigi, il lunapark di piazza Vittorio, Nietzsche a Torino, la tragedia del cinema Statuto, il futurismo e Alfredo Casella (fui folgorato dal futurismo di cui seppi per la prima volta grazie a una grande mostra alla Mole Antonelliana del 1980, “Ricostruzione futurista dell’universo”, gratuita per altro, sicché vi andai quasi ogni giorno), la marcia dei 40.000 colletti bianchi e la fine del movimento operaio (e mio padre destinato a lunghi periodi di cassa integrazione), gli omaggi a Isa Bluette e al Comandante Diavolo, il Lawrence d’Arabia italiano, il fascino dei molti mascheroni e telamoni e degli innumerevoli simboli esoterici della Torino magica e misteriosa, quindi la Fontana Angelica, con la sua porta verso la conoscenza tra le colonne d’Ercole rappresentate dai giganti Boaz e Yakin e molto altro. Quindi anche l’Angelo Azzurro. Torino, tra gli anni ’70 e i primi ’80, era già da tempo la città più industriale d’Italia: dopo l’ubriacatura utopistica del boom, si presentava ora come una città dura e cupa per la presenza ovunque di fabbriche che sporcavano tutto e di continui conflitti, ma anche perché era il cuore del terrorismo. La violenza era sempre dietro l’angolo, anche in forma di bande di ragazzi che giravano per i quartieri e in cui era meglio non imbattersi. Erano gli anni dei ragazzi della grande migrazione, di film come “La ragazza di via Millelire” di Gianni Serra o di “Vorrei che volo” di Ettore Scola. Un’indagine del Comune di metà anni Ottanta di bande ne censì 220, a cui appartenevano 2300 giovani. Anche in centro non era il caso di prendere certe vie, specialmente quelle del quadrilatero romano: meglio non lasciare mai la centrale via Garibaldi. Si stava sempre accorti: i tamarri li riconoscevi già da lontano, ti avvicinavano minacciosi, ti fermavano con armi proprie o improprie, bianche… Oltre ai coltelli, le più temute erano catene e pugni di ferro. Ti chiedevano i soldi, la catenina, il giubbotto, anche le scarpe… Inutile invocare l’intervento di Shpalman. E questo in pieno giorno… Figuratevi di notte! Specialmente dopo le 19 la città, che seguiva gli orari del Fabbricone, si chiudeva in casa col coprifuoco e in giro non vedevi più nessuno. Altro che movida! Mi piace divagare, lo so…

Ascolta Mon Turin di DeaR su Spotify

Noi abitavamo a due numeri civici dalla sede del MSI e della sua radio ufficiale, Radio Blitz, a cui ogni tanto telefonavo con il piglio di Nanni Moretti in “Ecce bombo” per rompere le scatole a “Livio Sound” e soci, divertendomi a chiedergli dischi impossibili di gruppi a loro sconosciutissimi (ne avevano pochi e mettevano sempre gli stessi più volte al giorno). Spesso, per questa prossimità, fummo coinvolti in vere e proprie guerriglie urbane. Ne ricordo soprattutto due. Nel 1975, in seguito all’assassinio di Tonino Micciché (a cui Enzo Del Re dedicò un 45 giri, ora estremamente raro), per mano di un fascista in una orrenda “guerra tra poveri” nei quartieri ghetto come Mirafiori, Vallette e Falchera. Il giorno dopo un corteo incendiò la sede del MSI. L’uso massiccio dei lacrimogeni usati, i cui gas erano penetrati massicciamente dalle finestre spalancate di casa al piano rialzato, causarono una pleurite in mia madre, che fu poi tardivamente ricoverata. Le sue condizioni critiche stettero quasi per farla morire. E poi l’Angelo Azzurro… La mattina del primo ottobre 1977 ci fu una manifestazione organizzata da Lotta Continua e di Autonomia Operaia in risposta all’uccisione di Walter Rossi, militante di sinistra, avvenuta a Roma il giorno prima. Un corteo raggiunse la sede del Movimento Sociale Italiano e cominciò un lancio devastante di molotov, bulloni, pietre e cubetti di porfido contro la Polizia. Arrivarono anche i carrarmati dell’Esercito. Ricordo ancora come il palazzo tremò al loro passaggio mentre stavo raggelato e incredulo sul balcone. Mio padre accorse e mi portò dentro chiudendo tutto, allontanandoci il più possibile anche dagli antoni della finestra, attraverso le cui fessure avevo cercato ancora di spiare. Il corteo si ricompose poi in via Po. Qui c’era un bar discoteca, che si credeva frequentato da elementi legati all’estrema destra borghese. Il locale era invece gestito da una coppia di sinistra, ma la voce che fosse un covo di fascisti era nata soltanto perché un ragazzo di estrema destra vi aveva festeggiato qualche giorno prima un suo compleanno. Gli estremisti delle squadre armate proletarie buttarono all’interno alcune Molotov. Uno studente universitario venne trascinato fuori e picchiato, mentre il suo amico, Roberto Crescenzio, operaio figlio di immigrati dal Veneto, si rifugiò nella toilette e qui fu intrappolato dalle fiamme. Raggiunse l’esterno trasformato in una torcia umana. Morì due giorni più tardi per le ustioni riportate su tutto il corpo.

Il brano riporta la dicitura di “Moresca” come l’antica danza di carattere grottesco in ritmo binario o ternario legata alle crociate, simulando la lotta tra cristiani e mori in una pantomima mascherata formata da due schiere contrapposte e armate. E nondimeno assurda fu tutta quella crociata tra ultradestre e ultrasinistre…

Probabilmente anche la copertina di Mon Turin la capisce chi conosce la città: cosa mostra?

La copertina di Mon Turinè opera di Leonardo Di Lella, artista che spesso cura le copertine dei miei libri (tra i quali l’ultimo pubblicato quest’anno da Arcana, “Italian Bowie, tutto su David Bowie visto in Italia e dall’Italia”). Ed è l’autore delle copertine dei miei precedenti album “New Roaring Twenties / Human Decision Required” e “Out of Africa”. È una vecchia cassettiera portaminuterie, anche un po’ scassata. Alcuni cassettini sono rotti o assenti, perduti. Alcuni sono ancora chiusi, altri sono aperti. Dentro ci sono i miei oltre 40 anni di musica ancora poco conosciuta o del tutto sconosciuta, rimasta ad oggi per lo più inedita e che sto cercando di fare uscire oggi dai miei archivi in una sorta di riscrittura ucronica della mia storia musicale. La maggior parte dei cassetti è ancora chiusa, tanta è la quantità di musica registrata e lasciata appunto ancora nei cassetti. I cassetti mancanti sono andati perduti insieme a dozzine di musicassette e centinaia di brani che nei decenni ho anche e purtroppo buttato via per colpa di un assurdo perfezionismo di cui oggi sono molto pentito.

Dietro due buchi lasciati da cassetti perduti si intravedono due occhi verdi: sono i miei da bambino, quelli con cui ho cercato di riguardare al mio passato e a ciò che sono diventato oggi, cercando di recuperare almeno un po’ della magia dell’infanzia, in questo caso soprattutto della mia città e della musica nella mia infanzia; ma sono anche quelle del futuro Star Child, di una speranza di altra vita dopo la vita. Su un cassetto è visibile la testa di un toret, la tipica fontana iconica di Torino. Per altro io sono un toro ascendente toro e, combinazione, ho vissuto e vivo in un settore della città a cui è stato attribuito il segno zodiacale del toro. C’è poi tutta la storia della fondazione egizia di Torino per volontà di un principe egizio di nome Pa Rahotep, arrivato alla confluenza del Po e della Dora, che gli ricordò il Nilo. Sotto la chiesa della Gran Madre si dice vi fosse dapprima un tempio egizio dedicato al dio Api, adorato sotto forma di Toro.

Dietro il mobile non c’è alcunché, ma solo un deludente, funzionale e razionale pannello posteriore con due traverse di rinforzo che tuttavia disegnano una sobria e scarna croce. Dunque non c’è nulla, come dopo la vita, ma forse… La croce, del resto, è un segno di speranza, di riconciliazione di Dio con l’umanità (e forse anche mia con Dio), di superamento della morte. 

DeaR, Mon Turin
DeaR, Mon Turin

All’interno della copertina è rappresentata la stella a dodici punte che sta in cima alla follia geniale della Mole Antonelliana, che Nietzsche chiamava Ecce Homo e, appassionato di fantascienza fin da bambino, da me sempre pensata come un’astronave pronta a lasciare il pianeta. La stella di Ertsgamma simboleggia i dodici apostoli di Gesù o, nella derivazione pagana, il cerchio zodiacale, così come – ai rispettivi opposti – l’uno significa il sole e il due la luna. C’è un ultimo simbolo, che è quello dell’etere, akasha in sanscrito. Ogni mio album sta riportando i simboli alchemici degli elementi. Dopo l’aria di “New Roaring Twenties – Human decision required” (disco doppio nato nell’anno della pandemia che ci toglieva appunto l’aria, nel quale feci anche largo uso di strumenti a fiato), e dopo la terra di “Out of Africa” (come ritorno alla Madre Terra da cui proviene tutta l’umanità e a seguire le sue continue migrazioni e diaspore), ho pensato all’etere, poiché rappresenta la Quinta Essenza ed è l’elemento dell’immortalità, la sostanza ipotetica e incorruttibile presente in ogni parte dell’universo, che occupa sia la materia, sia il vuoto, L’Anima del Mondo nella filosofia di Plotino, Platone e Aristotele. Rappresenta ogni dicotomia: idee/cose, materia/spirito, Dei/uomini eccetera. In ogni caso, da un punto di vista più personale, con “Mon Turin” ho cercato di raggiungere una quintessenza della mia musica e di un mio punto raggiunto in vita.

Questo sogno si è realizzato. Ne sei soddisfatto? Come hai composto le musiche? C’è stato un canovaccio, un filo conduttore, o si sono raccolte idee diverse nel tempo?

Il nucleo centrale, quello strumentale, l’ho composto quasi di getto al pianoforte nel 2010. Nel 2022 ho ripreso a lavorarci tagliando, limando e aggiungendovi altra strumentazione. Gli altri brani, specialmente quelli cantati, sono invece di origini diverse e sono serviti a variegare e completare il percorso. Il sogno era quello di fare anch’io musica classica, specialmente un piano concerto, al modo di alcuni compositori da me particolarmente amati nei primi vent’anni della mia vita. Ma il primo pianoforte lo ebbi molto più in là e la mia formazione musicale è stata quella di un autodidatta, a parte le prime lezioni impazienti di solfeggio impartitemi durante l’infanzia da mio padre fisarmonicista e un periodo di lezioni di sax tenore prese da Carlo Actis Dato nel ’90. Fin da subito, a undici anni, mi sono rivolto piuttosto al rock grazie alla chitarra e grazie a David Bowie, di cui sapevo cantare ogni canzone fin dalla verde età. Ma fin da ragazzo presi a esplorare ogni musica e a collezionare intere discografie, appassionandomi presto e soprattutto a ogni musica sperimentale. Il fatto che io sia un musicista fondamentalmente rock (o art rock?) e non classico è sancito dalla presenza di alcuni brani appunto di genere rock fin dalla ouverture di “Baroque and Roll”. Un concept nel concept di questo lavoro è la “outsider art”, perché tale, un outsider, sono diventato a fronte di un linguaggio colto e tecnico come quello della musica classica: io stesso ridimensionato a un outsider artist, ho operato al di fuori delle norme estetiche e tecniche convenzionali, definendo un lavoro d’arte spontanea, solo apparentemente pretenziosa. Ne sono soddisfatto? Le  proprie aspettative e aspirazioni sono sempre una brutta bestia… Every time I thought I’d got it made / It seemed the taste was not so sweet…

Ne approfitto per dire che il 30 dicembre scorso, insieme a Mon Turin è uscito, sempre grazie a Music Force, anche un mio ghost-album del 2006 dal titolo di “Wrong or right of forty”. Per ora solo in digitale su Spotify, ma spero prima o poi anche in CD. È un lavoro importante che all’epoca, pur avendo già stampate le copertine, non del tutto convinto, decisi di mettere in pausa. L’ho completamente rivisitato nel 2017. Si tratta di un disco di 15 tracce cantate e strumentali ed è ricco di collaborazioni con alcuni dei più interessanti musicisti dell’underground elettronico e sperimentale di quel periodo, tra cui l’intero Collettivo Oscillator 707.

Quali sono le tue influenze? Hai dei mentori?

In 56 anni ho ascoltato ormai di tutto, anche come collezionista e giornalista musicale. Tutto si amalgama e non sono più in grado di dire cosa influisca. Per questo disco potrei fare dei nomi, ma nominare Ravel, Debussy, Stravinsky, Bartòk, Hindemith, Satie, Shostakovich, Poulenc, Casella ecc. farebbe risultare tutto insopportabilmente velleitario. Lo stesso se dicessi Bowie, Sylvian, Byrne, Gilmour, Allen (i David qui si sprecano)… Quindi, Eno, Bush, Gabriel, Ferry, Sakamoto, Reed, Kraftwerk, Tangerine Dream… insomma, i miei primi e più grandi amori musicali. Sicuramente ho preso in un modo o nell’altro un po’ di lezione da tutti loro, ma alla fine io mi siedo alle tastiere o con la mia chitarra in braccio e faccio quello che so fare io, che sono io, senza imitare o rifare niente e nessuno, quanto meno consciamente. Oppure può essere che io abbia fatto finora un percorso molto personale di riassimilazione e rielaborazione enciclopedica e spiazzante della storia musicale, ricordando ora questo, ora quello, come una sorta di Zelig. Negli ultimi due anni i miei lavori sono stati recensiti scomodando i nomi più disparati, a cui spesso non avrei mai neanche io lontanamente pensato; una cosa molto divertente: Belle & Sebastian, Bob Marley, Brian Eno, Chick Corea, Daevid Allen, David Bowie, David Byrne, David Sylvian, Depeche Mode, Erik Satie, Fabrizio De Andrè, Giorgio Moroder, Gong, Iosonouncane, John Cale, Kraftwerk, La Monte Young, Leonard Cohen, Lou Reed, Mark Knopfler, Mike Oldfield, Monochrome Set, Morrissey, Nick Cave, Nico, Philip Glass, Pink Floyd, Residents, Syd Barrett, Tiamat, Vangelis, UB40, Woodkid… Insomma, se è vero (ma non credo), comincio a farmi paura.

In fondo non ho fatto nulla di nuovo o di eccezionale, se non che forse nel modo, ossia un fare tutto quel che avevo voglia di fare senza bisogno di pensare al successo o a un pubblico, di piacere o non piacere. L’ho fatto davvero soltanto per me e solo da due tre anni a questa parte sento la necessità di condividere tutto il mio lavoro.

Che ne pensi della scena italiana? Riferito proprio al sottobosco, l’underground?

Penso che l’Italia produca anche musica di altissimo livello, ma purtroppo il sistema mediatico di massa la ignora, così che si dovrebbe parlare anche di “oscena italiana”. Penso a validissimi gruppi o autori come Bluagata, Wedding Kollektiv, Savelli-Zanotti, Lham, Tenedle, Deadburger, Enten Hitti, Nimh, Oteme, Pensiero Nomade, Claudio Milano (questi ultimi due per altro presenti in “Mon Turin”)… e tanti tanti altri (non me ne vogliano gli appena esclusi)… Il problema del fare nomi sta poi nel non averne fatti molti altri. Meglio mantenere basso il livello generale. E, questo, riguarda tutta l’arte e tutta la cultura. Cerco personalmente di promuovere e aiutare la scena italiana, più o meno sotterranea, da oltre vent’anni anche attraverso la mia attività di intervistatore per la e-zine Kult Underground. Sono ormai più di 900 le interviste fatte negli ultimi vent’anni, la maggior parte in favore di artisti esordienti o sotterranei. C’è molta buona musica, ma purtroppo sta imperando nel bosco l’immondizia musicale, rimanendo nella citazione di Battiato, anche di più rispetto a quarant’anni fa… Alzo anch’io bandiera bianca. Sicuramente non ho mai seguito manifestazioni di regime come il festival di Sanremo et similia, né seguo alcun talent show. Qualcuno dirà che, in quanto giornalista musicale, io debba invece sentirmi in dovere di seguire un po’ di tutto. Ma, tanto, quella roba di regime prima o poi mi arriva di striscio comunque, volente o nolente; non vedo perché farmi anche volutamente e masochisticamente del male, magari – come fanno molti colleghi – sollecitando e gonfiando quella brutta parte frustrata di sé che si sente così finalmente superiore e deve commentare e sfogare buttando merda in tempo reale sui social ormai per chiunque e la qualunque. Io non riesco a non essere coerente: perché certe cose finiscano o cambino c’è un solo modo; ed è smettere di seguirle, possibilmente in tanti, se non tutti. Per fortuna, insomma, c’è ancora un sottobosco. E nel sottobosco, visto il bosco, voglio rimanere.

Trovo però ancora più devastante il fatto che ormai gran parte degli italiani, anche della mia generazione, che pure ha conosciuto di meglio, non si comperi più musica su supporto fisico, né possieda più una apparecchiatura per ascoltarne in alta fedeltà, neanche più un lettore cd o un mini stereo hi-fi, smanettando una volta di troppo un computer o i telefoni cellulari e, se va bene, uno speaker blue tooth per ascoltare file audio in formati sempre più compressi, meglio se in streaming usa e getta, non oltre il singolo, non oltre i due minuti o magari meno con le demenziali versioni sped up. Ho recentemente letto che la nostra capacità di attenzione e di concentrazione è calata drasticamente negli ultimi vent’anni; alcuni studi parlano di una soglia minima di 8 secondi, meno di quella di un pesce rosso. E non sono io che invecchio anche nella mia mentalità, come qualcuno potrà dire, liquidandomi pure con scherno come “baby boomer”… ed è capitato. Che poi, io appartengo semmai alla generazione X. E dopo la Y e la Z e la fine di questo stupido e detestabile alfabeto pseudo-generazionale, mi auguro si ricominci tutti da qualcosa di finalmente buono. Ho sempre e instancabilmente fatta divulgazione e sono aggiornatissimo, anche in fatto di elettronica, ma abbiamo raggiunto un punto in cui la tecnologia non evolve più migliorando idealmente a priori, piuttosto seguendo un percorso deciso da chi tiene le redini di processi quali l’ignoranza indotta, l’obsolescenza programmata, l’oligarchia dell’età globale e avanti. Mi sono lasciato prendere la mano, chiedo venia… Torniamo a noi.

Hai ancora sogni nel cassetto? Progetti musicali futuri?

L’8 maggio, giorno del mio compleanno, uscirà – ancora con Music Force – un nuovo CD dal titolo di “ DeaЯ Me!”, 15  canzoni in cui torno al pop/rock e a un soft rock di stampo ethereal wave, e due brani strumentali dedicati a due grandi scomparsi di recente che sono stati molto importanti nella mia formazione musicale, Klaus Schulze e Burt Bacharach. Ultimamente, per ovvie e inevitabili questioni anagrafiche, abbiamo la sensazione che tutti ci stanno lasciando o, se mi metto nel novero, che tutti noi di un certo passato ce ne stiamo andando. Sensazione amplificata dal fatto che i nuovi protagonisti della musica pop (e non solo pop) non sono oggi altrettanto importanti e iconici come quelli del passato. Su questa attenzione collettiva verso la morte dei “famosi” sta ironizzando il progetto “icons”, la “call for posters” lanciata dal collettivo Cheap a Bologna e dedicata alle icone della musica decedute in questi ultimi anni. Non vorrei si scambiasse questi omaggi, così come altri miei precedenti a Bowie e a Florian Schneider, per una mia adesione a una più ampia ossessione collettiva per la morte delle icone della musica e dello spettacolo, quella che fa ogni volta il giro dei social con il RIP d’obbligo, divenuto per me ormai fastidioso. L’esistenza di siti aggiornati in tempo reale per informare il pubblico su quali personaggi famosi sono morti nelle ultime 24 ore stanno effettivamente trasformando i social network in un luogo di consumo chiassoso, corrivo e spesso di pessimo gusto del lutto di massa. L’apoteosi del cattivo gusto si ha poi quando certi devono postarsi in una foto ricordo a fianco del fu personaggio. In questi casi, più che un ricordo e un dolore, quello che sembra è solo il bisogno di un loro discutibile mettersi in mostra. In passato ho provato a omaggiare anche i viventi, ma la cosa è sempre un po’ spinosa. Due anni fa ho tolto dalla track-list una canzone dedicata a Danielle Dax (“Danielle Dax and the flowers”) dall’album “Out of Africa”. Prima di pubblicarla volli fargliela ascoltare per sapere se la cosa le piacesse o dispiacesse. Mi chiese invece di togliere il suo nome dal titolo per evitare che il mio brano potesse creare confusione, facendolo credere come qualcosa di suo, e approfittarne io in qualche modo nella vendita. È stato molto deludente e, piuttosto che cambiare titolo, ho preferito escluderla. Ah, ma ho di nuovo divagato…

Altri progetti? Mi piacerebbe entro l’anno pubblicare un cofanetto con tutti i miei anni ’80, più di cento brani ancora inediti. L’università di Edimburgo sta facendo tre workshop sul mio omonimo Davide Riccio (David Rizzio, Torino 1533 – Edimburgo 1566) con l’obiettivo di farlo finalmente conoscere in tutto il mondo. La mia biografia, ad oggi l’unica, scritta dopo ricerche durate quasi trent’anni, uscita a settembre del ’22, pubblicata dal Comune di Moretta per volontà del sindaco Giovanni Gatti, che ne ha per altro portate personalmente copie al castello di Holyrood, è al centro di questi lavori. Dei molti brani musicali a lui attribuiti da me riscoperti è stato fatto anche il primo CD da un ensemble strumentale di New York. La presenza in “Mon Turin” di questo torinese illustre e totalmente dimenticato, morto pugnalato 57 volte ai piedi dell’amata sua regina, Maria Stuarda, è nelle cornamuse del “Blues per il Comandante Diavolo”. Potrei riprendere a lavorare su un mio disco di sue musiche. Dopo “Italian Bowie” sto ora lavorando a una raccolta di racconti e a un altro saggio musicale, ma ho scelto un argomento gigantesco e a volte, rendendomene sempre più conto, mi scoraggio anche un po’. E molto altro, se progetto vuol dire gettare avanti. È importante infatti per il mio presente pensare di spingermi sempre avanti e pensare di avere ancora un avvenire, meglio se molto. Anche infinito non sarebbe male. Quanto ai cassetti, ne ho ancora molti chiusi e pieni di musica già fatta in oltre 40 anni di attività nascosta. Piano piano, prima di andarmene nell’atroce nulla eterno foscoliano (benché io speri in un Aldilà), cercherò di farla finalmente uscire. Anche se, alla fine, che esca o non esca non sembra fare una grande differenza in termini di bilanci cosmici… è solo una questione di autoillusioni. Un aiuto per il futuro nel chiudere gli occhi per sempre pensando di aver fatto tutto il possibile e di lasciare qualcosa per i prossimi 10^139 anni (1 seguìto da 139 zeri), ovvero fino all’ultimo atto dell’universo. Quindi, nulla in ogni caso…

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