INTERVISTA | Phillip Golub nel suo “Filters” i filtri per ripensare il mondo

Phillip Golub è compositore, pianista, e avvocato per i diritti dei musicisti indipendenti. Ed è anche una mente brillante. A ottobre uscirà il suo debutto, Filters, per piano solo. Gli facciamo qualche domanda…

Ciao Phillip Golub e benvenuto. Che intendi, quando dici di “ripensare il processo delle prove musicali come un luogo di socialità musicale e di creatività collettiva?” Non è già così?

Amo le prove. Per me, è la parte più gratificante e divertente del fare musica, più di comporre, allenarmi, registrare, e addirittura esibirmi. C’è grande gioia, nel capire cosa serve ad un brano musicale, per realizzare il suo potenziale emozionale. Sfortunatamente, la gente è impegnata a sopravvivere, e non gira molto denaro nella scena. Ciò significa che è molto arduo, creare le condizioni per le prove ideali. Molte di esse sono per il concerto. Una logica capitalista basata sull’efficienza, che toglie creatività a molte prove. La preoccupazione principale è suonare abbastanza bene da rendere la musica presentabile in un piccolo lasso di tempo. Non incolpo certo le persone, per le loro possibilità. L’ideale di cui parlo è un grande privilegio, particolarmente a New York oggi. Tuttavia, faccio ciò che posso, come leader della band e compositore, per creare un’etica diversa. In tutto ciò che faccio, incoraggio le relazioni: che sia comunicare gli spartiti, dirigere le prove, le interazioni umane (preparo il pranzo per la band), è questo che intendo come socialità e creazione collettiva alle prove. Quando faccio i lavori solisti, come nel caso di “Filters”, la linea tra prove e pratica sfuma: ho cercato ciò che serviva: materiale di altri pezzi? Serve un’orchestrazione? Più contrappunti o una melodia? Devo definire le durate ritmiche? A volte mi sono accorto che un pezzo era già pronto, sebbene lo provassi da tempo.

Phillip Golub, parlaci del tuo lavoro per i diritti dei musicisti. È ancora difficile negli Stati Uniti, che i musicisti siano riconosciuti come lavoratori?

Molto difficile! Il musicista è percepito principalmente in due modi: o siamo rock star, o lo facciamo per hobby. In entrambi i casi, non ci spetta aiuto. Oltre a questo, l’industria musicale è davvero molto complessa. Chi fa le scelte politiche, e spesso gli stessi lavoratori della musica, non capiscono che esistono delle strutture. Difficile cambiare, quando non c’è una chiara comprensione del problema. Ma abbiamo fatto progressi, non solo nella percezione da parte di alcuni politici, ma anche i musicisti capiscono che meritano di meglio, e qualcosa si può fare. Negli scorsi anni, è partito un certo numero di iniziative. Faccio parte della Music Workers Alliance: musicworkersalliance.org. Dal 2020, anno di fondazione, sono nel comitato direttivo. Siamo un’associazione, che unisce musicisti indipendenti: dj, produttori, ingegneri del suono, e altri creativi. Ci occupiamo di tutto: dal copyright negli USA ai sostegni per i musicisti in tour, che hanno perso le finanze durante il lockdown per Omicron, al trattamento e alle politiche di pagamento dei titolari dei locali a New York, e altro ancora.

Com’è l’esperienza di Phillip Golub nel collettivo Tropos? Quanto d’improvvisazione può esserci in brani come “6i” o “Fronk”, e com’è il processo di creazione delle parti scritte? Ci sono punti fissi dal vivo?

Amo suonare con i Tropos, perché ogni membro della band porta energia e idee uniche. Non smettono di sorprendermi col loro strumento. Per quanto riguarda l’improvvisazione, essenzialmente, quando senti la band suonare la stessa melodia all’unisono, è scritta, altrimenti è improvvisata. Molti dei pezzi del primo disco dei Tropos hanno un tema da suonare all’unisono. Poi c’è un’improvvisazione nel mezzo, poi si torna al tema principale. Ci sono alcune eccezioni, in pezzi come “Everybody’s doing it” o “Of the Trellis”, con sezioni scritte che compaiono in mezzo alle sessioni improvvisate. La seconda metà  contiene brani di Anthony Braxton, come “6i”. Le performance dal vivo variano: non decidiamo chi improvviserà, quando, in che ordine, per quanto tempo, con che carattere o che durata. Cerchiamo di sorprenderci a vicenda. Arriverà un nuovo album, “Shadow Music”, per Endectomporh Music, in primavera, nel 2023. Si tratta di un duo e un trio d’improvvisazione tra me al piano, Mario Layne Fabrizio alla batteria, e Lalia Smith alla voce.

Parliamo del tuo debutto per piano solo, “Filters”. Quali sono le tue influenze consapevoli? C’è un artista di riferimento per te?

Normalmente, decido cosa studiare, e dove inzuppare le orecchie,  in base a quello su cui lavoro. Se quel che sto facendo richiama l’artista X, Y o Z, li studio un po’. “Filters” è diverso; avevo scritto degli esercizi, e più tardi ho capito che farne. Testavo idee armoniche, e dopo aver provato i pezzi in modi diversi, ho realizzato che c’era un potenziale nel trasformarli in loop. Anche se inconscia, posso indicare come influenza un esercizio di ear-stretching, che il grande pianista jazz Andrew Hill era solito fare. L’idea era suonare semplici triadi in mezzo al pianoforte, con una nota irrelata sopra e sotto. Così cercava nuove sonorità. Le composizioni su “Filters” prendono questa nozione in prestito e la espandono. Altra ispirazione è Ran Blake, grande pianista sottovalutato. Blake aveva l’abilità profonda di creare stratificazioni di suoni nel pianoforte, dalle diverse dinamiche. Attingo anche da lui, spesso provando a trascinare le note più tranquille nel suono brillante delle note precedenti. È un fenomeno unico del piano. Infine, la mia musica non esisterebbe senza compositori come Erilk Satie e Brian Eno, ma non sono loro devoto: non ci pensavo mentre componevo.

I loop sono difficili da afferrare in quanto loop: tutto sembra cambiare costantemente, anche se la sensazione generale è di staticità. Sono generati al computer e poi rielaborati, o provengono da quel particolare processo di prove musicali?

Son contento che me lo chiedi, perché si va al cuore di dove voglio andare. I loop non sono generati a computer. Ogni brano ha un A,e un B, e una forma principale. Ad esempio, la forma del Loop 1 è AAB, e del 3 è AABABA. Eseguo fisicamente le ripetizioni, quando suono Filters. Ciò significa che ci sono piccole differenze di tempo, accordi, pedale e così via, ogni volta che torni sullo stesso materiale. Avevo registrato ogni loop in prova per 45 minuti, poi ho editato le versioni preferite. In passato, quando le ho eseguite dal vivo, sono andato avanti per mezz’ora o tre quarti d’ora per ognuna! Uso spesso la ripetizione, la trovo affascinante. Le cose non accadono mai uguali la seconda volta, e neppure la terza e la quarta. I loop danno anche una sensazione di “digitale”. Nel mondo di oggi, i loop sono ovunque. Il nostro Mac ha addirittura giri di batteria, basso e chitarra preinstallati. Far suonare a un umano la stessa cosa più volte, come fenomeno analogico, può sorprendere. Ogni ascoltatore intuisce che una macchina ripeterebbe facilmente i fraseggi che ho scritto, con pochi click. Ma dal vivo è più suggestivo, e significativo.

Cosa si aspetta Phillip Golub dagli ascoltatori? Cosa dovrebbero provare?

Questa musica funziona in più contesti. Puoi sederti con le luci spente, ed ascoltare concentrato, con l’hi-fi. O andando a dormire, o fai le tue faccende, mediti o cammini. Puoi ascoltarla in macchina, o semplicemente usare la musica per calmarti ed abbassare la pressione. O puoi analizzare la frizione tra gli intervalli dissonanti, le piccole differenze nel timing e nella dinamica, il tocco pianistico e l’imprevedibilità delle sezioni. Mi aspetto e spero che gli ascoltatori abbiano tutto questo tipo di relazioni e reazioni.

Credo fermamente, che un aspetto di questa musica rifiuti l’impulso consumista, promosso dal capitalismo, a produrre sempre più informazioni possibile. Penso che Filters faccia fare un pensiero all’ascoltatore: e se la nostra economia non fosse organizzata sul produrre sempre? Ma questa musica di certo non è riducibile al messaggio politico, è anche “gradevole” per chi vuole goderne.

Per concludere, una domanda filosofica: musica e architettura. Hegel le poneva agli antipodi, in quanto l’architettura è la disciplina più “fisica”, mentre la musica la più effimera. Sei d’accordo, o hanno qualcosa in comune?

Non credo che la musica sia effimera. Sentiamo la musica nel nostro corpo, e nelle nostre interiora come nessun altro medium artistico ed esperienza. Le onde sonore muovono l’aria, che non si limita a raggiungere i timpani delle nostre orecchie, ma anche il resto dei nostri corpi. Capisco perché Hegel la pensasse così, prima dell’invenzione della registrazione. Ai suoi tempi, quando ascoltavi un suono, non c’era modo di risentirlo. Questo non è più vero oggi, e ciò ha profondamente cambiato il nostro rapporto con la musica negli ultimi 100 anni. Penso che le arti abbiano zone in comune, come gli strumenti e le strategie che tendono ad usare; ma possono anche imitarsi a vicenda in modi meravigliosi e inaspettati. Musica e architettura lo fanno: ad esempio, entrambe le arti usano pattern e strutture imitative.

Grazie per il tuo tempo!

Di nulla!

Social e Contatti Phillip Golub