Stranger in the Alps di Phoebe Bridgers (2017, Dead Oceans) è un album eccezionale, che parla con il linguaggio musicale di un folk degli anni zero e una narrazione lirica di altissimo valore a un mondo immerso nelle nevrosi. Da molte riviste del settore definito come album rivelazione del 2017, è stato il primo LP di Phoebe Bridgers, che di musica ne aveva già masticata parecchia ben prima dell’uscita di questa gemma
Se mi si dovesse chiedere il nome di un’interprete che, con la sua voce, ha dato una scossa alla musica internazionale negli ultimi anni, non ci penserei molto su: la mia risposta sarebbe Phoebe Bridgers.
Il suo disco di debutto, Stranger in the Alps, è stato edito da Dead Oceans nel 2017, ma è solo un tassello di una personalità artistica che già da tempo aveva molto da dire. Faremo un breve excursus sulla vita artistica di Phoebe Bridgers ante-disco per poi concentrarci sulla narrazione di Stranger in the Alps, sia sul piano della forma che dei contenuti:
- Phoebe Bridgers ieri, oggi, domani (?)
- Stranger in the Alps il disco di Phoebe Bridgers
- You are anonymous, I am a concrete wall
- A good feeling (It doesn’t happen very often)
- Walking Scott Street
- I’m a can on a string, You’re on the end
- Can the killer in me tame the fire in you?
- You missed my heart.
- Conclusioni
Phoebe Bridgers ieri, oggi, domani (?)
Phoebe Bridgers cresce a Pasadena, e studia vocal jazz alla High School for the Arts, pur ammettendo successivamente di non ricordare quel periodo con piacere. Sono gli anni in cui comincia a fare le prime esperienze di busking, e successivamente suonerà come bassista nelle Scoppy Jane dove inizierà a scrivere le sue canzoni, fortemente ispirate dall’indie-folk di autori come Mark Kozelek e Conor Oberst (entrambi figure di rilievo nella produzione del suo disco). Il suo EP di debutto, Killer, sarà prodotto nientemeno che da Ryan Adams nel 2015. Phoebe Bridgers fa parte, dal 2018, del supergruppo boygenius, insieme a Julien Baker e Lucy Dacus, e sempre dal 2018 del duo Better Oblivion Community Center insieme a Conor Oberst – sodalizio nato sulla scia della partecipazione di Oberst a un brano di Stranger in the Alps, Would you rather.
Nel 2019 collabora con Matt Berninger, frontman dei The National, alla composizione e produzione del brano Walking on a string, che anticipa l’uscita del primo disco solista di Berninger, Serpentine Prison, atteso per il 2020. Sempre nel 2019, Phoebe Bridgers aveva partecipato come ospite alla presentazione dell’ultimo disco dei The National, I am easy to find, al Los Angeles’ Orpheum Theatre. Ha pubblicato il suo nuovo singolo, Garden song, il 26 febbraio 2020, sempre per la Dead Oceans.
Stranger in the Alps il disco di Phoebe Bridgers
È Phoebe Bridgers stessa a definire le sue composizioni folk songs in una lunga intervista al Los Angeles Times – folk songs senza fronzoli, che raccontano esattamente cosa accade in un linguaggio comune1.
La matrice folk è ravvisabile sia sul piano esecutivo (uso del fingerpicking o comunque di una tecnica a metà fra lo strumming e l’arpeggio, l’uso del violino e in alcuni passaggi del banjo) che compositivo: i giri armonici sono quasi sempre canonici o comunque non si allontanano mai troppo dalla tonalità d’impianto (abbiamo forse qualche esempio di tonicizzazione ma neanche una modulazione vera e propria all’interno del singolo brano). L’aspetto formale è basato perlopiù sulla classica forma ABABCB.
You are anonymous, I am a concrete wall
Stranger in the Alps è aperto dal terzinato gocciolante di Smoke signals, una opening track tanto essenziale quanto immaginifica ed emotiva. Le note della chitarra elettrica che vanno a battere sugli accenti nel ritornello potrebbero ricordare paesaggi vagamente Lynchiani – ci riferiamo alla colonna sonora di Twin Peaks. È un’oscura ninnananna dove parrebbe essere rappresentata la difficoltà fra due persone a comunicare (emblematica la chiusura, You are anonymous/ I am a concrete wall).
La stessa Phoebe Bridgers in un live a KRCW, presentando il brano, dirà che è stato scritto per il suo (ex) fidanzato Marshall Vore, batterista della band che ha accompagnato la cantautrice nel tour di presentazione del disco. Oltre all’incomunicabilità, tema topico del disco e della narrazione di Phoebe Bridgers, si cita la morte di Lemmy Kilmster dei Motorhead e quella di David Bowie, in un collage di immagini che accostano una narrazione lineare a una sorta di cut-up borroughsiano. Fin da qui iniziano a delinearsi alcuni temi che torneranno in tutto l’album: la morte e la sua inevitabilità, l’alienazione, la nevrosi, un senso generale di malinconia. Non inganni l’incedere incalzante di Motion sickness, col suo pop-rock marcato da basso e batteria: solo apparentemente scanzonato, si tratta di un brano sugli abusi subìti da Phoebe da parte di Ryan Adams – contro cui nel 2019 diverse donne del mondo dello spettacolo scrissero un articolo sul New York Times.
Le parole del brano fanno riferimento a un sentimento contraddittorio: I hate you for what you did/ And I miss you like a little kid. La chiusura del brano è improvvisa, quasi “a strappo”, e si passa a Funeral, uno dei capolavori del disco. Sorretta da un arpeggio e un violino di ispirazione folk (Gabe Witcher, già membro dei Punch Brothers), il brano si apre con una narrazione esplicita: I’m singing at a funeral tomorrow/ for a kid a year older than me. Il brano sembrerebbe riferirsi, su un piano biografico, a un amico dell’autrice morto per overdose. Provando a spostarci dall’aspetto biografico, anche qui ritroveremo temi onirici (la protagonista parla di un sogno dove lei sta urlando sott’acqua), la malinconia – perfettamente espressa nel ritornello: Jesus Christ, I’m so blue all the time/ And that’s just how I feel/ Always have and always will.
A good feeling (It doesn’t happen very often)
La solitudine, la malinconia e la depressione tornano in Demi Moore, introdotta da synth, fingerpicking e vocalizzi. La tastiera entra ed esce nelle strofe, segue parzialmente la linea vocale nel ritornello per poi discostarsene. Il finale è un crescendo mai eccessivo e raffinato di organo e basso. Il brano è “una canzone sul sexting”, a sentire la presentazione fatta dalla stessa Bridgers nel live al Brooklyn Steel2. Addentrandosi nel testo, però, è evidente che i riferimenti sono altri. I don’t wanna be alone/ I don’t wanna be alone anymore, nel primo ritornello; I’ve got a good feeling/ It doesn’t happen very often nell’outro. La solitudine, la depressione e la malinconia tornano a galla anche qui.
Su malinconia e depressione, Phoebe Bridgers si è ampiamente espressa in un’intervista a goldflakepaint: “[…] credo che tutta questa cultura del parlare apertamente di sanità mentale e di trovare persone che provano le tue stesse cose sia davvero incoraggiante”3. È interessante, a mio avviso, il parallelismo che Phoebe Bridgers evidenzia fra questa sorta di “rinascimento emotivo” fecondatosi attorno a un argomento tabù come la malattia mentale e il movimento musicale dell’emo revival (cfr. l’intervista su goldflakepaint).
Walking Scott Street
Sulla ballad Scott Street ci sarebbe da aprire un articolo a parte, anche solo per parlare della composizione fatta a quattro mani con Marshall Vore. Consiglio caldamente la bella intervista audio su songexploder.net4, dove si possono ascoltare anche alcuni estratti dalla primissima demo del brano e alcune pillole sulla produzione finale (il rumore degli elicotteri, o l’ingresso della batteria che anticipa di poco la parola drums nella quarta strofa). Sul piano formale siamo di fronte a una ballata che nasce per voce e chitarra, con uno strumming in 4/4.
Da sottolineare gli archi sul finale, arrangiati da Rob Moore (già tournista per Sufjan Stevens, Anthony & the Jhonsons, Glen Hansard e arrangiatore per Bon Iver – giusto per inquadrare di chi stiamo parlando). Scott Street sembrerebbe in qualche modo la naturale prosecuzione di Smoke signals: una lunga chiacchierata fra due persone che in passato hanno condiviso una parte di vita (forse Phoebe Bridgers e lo stesso Marshall Vore?), e che adesso si ritrovano a parlarsi dopo una possibile, eventuale rimarginazione delle reciproche ferite (si veda il ritornello: Do you feel ashamed/ When you hear my name?).
Come spesso accade nel disco, l’outro è da rimarcare: Anyway, don’t be a stranger. Smarrimento, straniamento nei rapporti umani. Dovendoci rifare alle parole della stessa autrice, questa malinconica ballata è una canzone sulla solitudine (si veda l’intervista a Phoebe Bridgers di Philip Cosores su Bandcamp Daily5).
I’m a can on a string, You’re on the end
I rapporti umani e la narrazione autobiografica ritornano in Georgia, col suo incedere marziale e al contempo minimale, dove Phoebe racconta di una sua passata relazione e gli elementi contraddittori si susseguono: And If I breathe you, will It kill me?/Will you have me, or watch me fall?/ If I fix you, will you hate me?/ And would you fuck this and let us fall? Un brano sull’instabilità e sulla precarietà dei rapporti umani, e, stando a quanto ha detto la stessa autrice, sulla necessità di avere conferme da parte dell’altra persona6. Con Would you rather, la narrazione dialogica si iperbolizza nella forma duetto con Conor Oberst, e la narrazione autobiografica prosegue toccando la delicata tematica del rapporto fra Phoebe e il fratello minore (che dirigerà il videoclip del brano).
La canzone è ancora una delicatissima ballata per chitarra e tastiere che si installano strofa dopo strofa, ma a guidare la narrazione è, come sempre, la voce. Interessante notare come il duetto si sviluppi nel ritornello inizialmente con una sorta di “call and response” fra i due interpreti per poi diventare un’armonizzazione a due voci, mentre nel bridge le due linee melodiche si sovrappongono alle rispettive ottave.
La stessa Phoebe Bridgers ha scritto nel post su Instagram di presentazione del singolo che la canzone parla di come conoscere una persona profondamente significa entrare in contatto con gli incubi più macabri della sua infanzia, ma anche di come il condividere questo passato doloroso possa rendere tali incubi “utili”7. Se andiamo a leggere su The Line of best fit la bella intervista che Phoebe Bridgers ha rilasciato a Sammy Maine, non possiamo che concordare, sulla base di quanto emerso dalla seppur rapida analisi del brano, con quanto scritto al termine dell’intervista: Phoebe Bridgers esplora quell’adolescente che nessuno di noi ha mai totalmente superato (si pensi alle paranoie e alle nevrosi tipiche dell’età di riferimento). E se pure non fornisca una risposta, l’ascolto di Stranger in the Alps può fungere da opportunità per cercare una soluzione contando su sé stessi8.
Can the killer in me tame the fire in you?
Killer e Chelsea, insieme a You missed my heart su cui torneremo in modo più specifico dopo, sono le canzoni che più di tutte parlano in modo esplicito di morte. La prima è una piano ballad intensa, la seconda vede in primo piano voce e chitarra con echi di spazzole alla batteria, doppie voci e rumori di sottofondo. Sempre l’intervista su The line of best fit rivela un pensiero ricorrente e, diremmo, angosciante di Phoebe Bridgers: l’inevitabilità della morte e l’ossessione di come qualcuno possa uccidere qualcun altro9. Questa ossessione ritorna platealmente in Killer (che la vede duettare nel ritornello con John Doe degli X): Sometimes I think I’m a killer/ Scared you in your house/ I even scared myself by talking/ About Dahmer on your couch. Timori, ossessioni, paure, le stesse di Chelsea, dedicata invece a Nancy Spungen. I won’t be home with you tonight, vale la pena citare questo verso del ritornello, tanto semplice quanto efficace. Da rimarcare l’atmosfera malinconica ma tesa verso una sorta di “speranza” del brano, forse dettata dalla tonalità maggiore e dal semplice giro armonico, e come questa atmosfera faccia da contraltare a una narrazione tragica – e che guarda caso, fa nuovamente riferimento a un evento reale e biografico. Ultima ma non ultima, la citazione coheniana di Chelsea Hotel.
You missed my heart.
La chiusura del disco (se escludiamo il breve reprise di Smoke signals) è affidata a una cover di Mark Kozelek e Jimmy LaValle: You missed my heart.
Un pianoforte che ripete ossessivamente la stessa cellula melodica su cui si installa la melodia della voce. Sul piano formale, sottolineerei la profonda differenza con l’originale, sia nell’arrangiamento che nell’intenzione. Sul piano dei contenuti, si apre davvero un mondo. Innanzitutto, la canzone è nata da un sogno di Mark Kozelek: lo possiamo leggere nell’intervista che la stessa Phoebe Bridgers ha fatto a Kozelek su sunkilmoon10.
La canzone è una favola nera dove il protagonista uccide per due volte e viene a sua volta ucciso per gli omicidi commessi. La canzone è una delle preferite in assoluto di Phoebe Bridgers, che l’ha anche cantata insieme a Kozelek durante un concerto di quest’ultimo. Da lei stessa definita “una canzone che avrei voluto scrivere”11, Phoebe Bridgers ha inoltre detto che “mi succede questa cosa di dover ascoltare a ripetizione una canzone se mi piace molto […], ma qui era una cosa del tipo «Devo suonarla». È un altro livello, devo entrarci dentro. Questa canzone era totalmente in sintonia con me, non potevo smettere di ascoltarla”12. Nel leggere queste parole e nel ripassare i temi e la forma di questa canzone, non ci stupisce che sia stata messa in posizione di (semi) chiusura del disco: si tratta di una narrazione in forma autobiografica, nata da un sogno (e le atmosfere oniriche vengono amplificate dalla versione di Phoebe Bridgers, con l’andamento ipnotico del piano e il sovrapporsi delle voci: ascoltare per credere), il cui tema centrale è la morte. Verrebbe quasi da dire che You missed my heart sia una summa di tutto il disco.
Conclusioni
Phoebe Bridgers dispensa pillole, o dipinge bozzetti di nevrosi e follia più o meno ordinarie in un mondo oscuro dove, tuttavia, spunta timidamente fuori qualche sprazzo di speranza. Ma personalmente, non credo che la cantautrice voglia consolare nessuno. Il suo disco racconta, descrive, parla a un mondo di paranoie. La paura della morte, l’impossibilità di comunicare, la solitudine, sono tutti temi e universali e particolari, specie negli anni dieci degli anni zero, dove forse soprattutto nella generazione della cantautrice il sentimento di alienazione è più forte rispetto alle generazioni precedenti.
Questo disco ha la forza dirompente di raccontare favole nere che si annidano nelle teste di tutti, con un linguaggio di tutti e una musica che vanta arrangiamenti notevoli e raffinati: quello che viene fuori, alla fine, è sempre la melodia della (stupenda) voce di Phoebe Bridgers, sorretta da quel mondo di echi, strumming e arpeggi che pur guardando al folk non suona mai vecchio. In attesa trepidante del prossimo lavoro della cantautrice americana, possiamo ascoltare il suo nuovo singolo, Garden song, pubblicata il 26 febbraio 2020 per la Dead Oceans (squadra che vince…).
di Federico Murzi
Guarda il videoclip di Smoke Signals di Phoebe Bridgers
Le fonti
- https://www.latimes.com/entertainment/music/la-et-ms-phoebe-bridgers-20171215-story.html
- https://www.youtube.com/watch?v=fLYlYwoqeFI
- https://www.goldflakepaint.co.uk/long-read-a-conversation-with-phoebe-bridgers/
- http://songexploder.net/phoebe-bridgers
- https://daily.bandcamp.com/features/phoebe-bridgers-stranger-in-the-alps-interview
- https://pitchfork.com/reviews/albums/phoebe-bridgers-stranger-in-the-alps/
- https://www.instagram.com/p/BcnQziRAt2S/?hl=it
- https://www.thelineofbestfit.com/features/interviews/one-to-watch-introducing-phoebe-bridgers-interview
- https://www.thelineofbestfit.com/features/interviews/one-to-watch-introducing-phoebe-bridgers-interview
- http://www.sunkilmoon.com/interview_mark_kozelek_phoebe_2018.html
- http://www.sunkilmoon.com/interview_mark_kozelek_phoebe_2018.html
- https://www.thelineofbestfit.com/features/interviews/one-to-watch-introducing-phoebe-bridgers-interview