Non di sole chitarre e armoniche a bocca vive il bluesman di inizio Novecento, ma anche dei tasti neri e bianchi del pianoforte! Con questo breve excursus, ripercorreremo l’articolata storia del pianoforte afroamericano, prima di affrontare, in articoli successivi, le singole tappe in modo più approfondito
La storia del pianoforte afroamericano è un percorso mosso e articolato, affrontato sia da musicisti di estrazione piccolo borghese – e, quindi, legati alla musica eurocolta – sia da songster itineranti, privi (o quasi) di cultura musicale formale: ma, qualunque sia la loro ispirazione, troviamo sempre – declinati in modi differenti – alcuni caratteri comuni.
Elementi come il controtempo (la sincope), l’attenzione al ritmo, la frizione fra l’anima “nera” e la forma “bianca”, e la tendenza verso l’adozione di strutture stabili: che si tratti di Ragtime, Boogie o Blues, questo sarà il sottofondo che ci accompagnerà sempre.
Freak e Sperimentatori
Il nero liberato, anche dopo la Guerra di Secessione, continua ad essere molto spesso un reietto, e anche se dotato di talento, è sfruttato come sorta di “cagnolino ammaestrato”, da esibire sotto i tendoni degli spettacoli popolari itineranti.

È il caso, ad esempio del pianista Thomas “Blind Tom” Wiggins, alias Thomas Bethune, stella del circuito vaudeville, dove resta sino alla fine della sua vita: sa eseguire a menadito oltre settemila pezzi di repertorio, riesce a eseguire tre temi differenti in contemporanea (uno per mano, e il terzo con la voce), e suona pure alla Casa Bianca… Ma sempre povero resta!
Altro freak (ma un po’ più fortunato), e il pianista prodigio John William “Blind” Boone: tiene in carriera oltre settemila concerti, viaggia per oltre 144.000 miglia e – grazie a contratti vantaggiosi – riesce anche a guadagnare cifre importanti.
Sul versante classico incontriamo invece la figura meticcia di Louis Moreau Gottschalk: pianista virtuoso e autore di metà Ottocento, “che di “nero” ha solo qualche goccia di sangue, ma che nelle sue composizioni per tastiera (le cosiddette “Fantasie creole”), immette elementi afroamericani, basate su rielaborazioni delle reminiscenze musicali assorbite nella madre patria in età infantile.
Taverne e barili di birra
Quando la produzione in serie di pianoforti assemblati diventa economicamente conveniente, il piano entra nelle possibilità anche degli artisti itineranti: prima tappa, nei saloon del Midwest, a rallegrare le serate dei boscaioli e dei manovali delle ferrate. Lo scopo è sostituire con efficacia gli strumenti tipici della folk song da ballo bianca, fiddle e banjo: la mano sinistra si incarica del ritmo, come il banjo, mentre la destra crea melodie, temi e improvvisazioni, sostituendosi al fiddle. É l’atto fondativo del Fast Western Piano, lo stile da cui deriva gran parte del lessico del pianoforte afroamericano: una maniera che si nutre di una frizione, di una tensione permanente fra lo strato più liquido della mano destra, e quello più solido della sinistra.
Lo stile istintivo, brutale, rumoroso, sincopato e fortemente ritmico del Fast western Piano fa scuola, e genera due correnti, in apparenza opposte. La prima è il permanere, a livello popolare e in consessi sociali borderline, di una musica pianistica chiassosa e allegra, informale e danzereccia (il Barrelhouse), dove sono più evidenti le radici africane e blues: l’impeto ritmico è incalzante, mentre la mano destra tenta con vari artifici (cluster, glissandi, tremoli) di emulare gli accorgimenti espressivi della più sensibile chitarra… E, da qui, arriveremo nel giro di pochi decenni al Boogie. La seconda è una sua reinterpretazione in chiave eurocolta, educata, che raffredda il bollore emotivo in una visione altamente formalizzata, condotta a ritmo di marcia: il Ragtime.

Il Ragtime: Il re del pianoforte afroamericano
Il Ragtime è musica prevalentemente pianistica, ed è composta a tavolino da autori professionisti: nulla a che vedere, quindi, con lo stereotipo del nero straccione e incolto. Il Ragtime si presenta come un genere strumentale estroverso, sofisticato, virtuoso, scritto e non improvvisato, fondato su un connubio fra strutture formali e armoniche europee, e l’uso regolare di figurazioni sincopate di origine africana: con una bella sintesi, “una melodia fortemente sincopata sovrapposta a un accompagnamento rigoroso e regolare”. Se il Ragtime si chiama così (“tempo stracciato”) la causa è proprio la sincope, che dà ai brani un andamento sussultante, e “straccia” la normale scansione degli accenti.
Il Ragtime rappresenta un passo avanti epocale, nella storia del pianoforte afroamericano, e comprende tre categorie di composizioni: le trascrizioni strumentali di coon songs; le versioni in stile di pagine popolari o classiche; le composizioni originali, strumentali o cantate che siano. Nel complesso, quello pianistico è solo una parte del Ragtime, ma è il Ragtime per eccellenza. Il classico “pezzo” Ragtime comprende quattro temi melodici differenti (A, B, C e D), ognuno sviluppato su 16 misure, e posizionati e alternati secondo una forma stabile e determinata, la più ricorrente della quali la struttura AABBACCDD; il sistema armonico ricorre alla classica sequenza tonica-dominante-sottodominante, il ritmo è il 2/4 della marcia.
L’accentazione ripete i canoni europei, con accenti forti in battere, e deboli in levare: la mano sinistra scandisce alternativamente, con ritmo marziale e regolare, i tempi forti (nota di basso al primo quarto) e deboli (accordo sul terzo quarto). La destra si muove invece a tempo doppio, con glissando cromatici, tremolii e soprattutto sincopi. Come dicevamo, un connubio fra elementi “neri” e “bianchi”: un connubio di straordinaria fortuna, peraltro! Le composizioni di Scott Joplin e degli altri autori di genere dilagano per tutta la nazione: del solo Maple Leaf Rag nel 1899 si vendono oltre un milione di spartiti.
Scott Joplin e gli altri

Il Rag pianistico per eccellenza, padre di tutte le correnti derivate, e di conseguenza del pianoforte degli afroamericani, è il cosiddetto Classic Ragtime, quello cioè più legato ai canoni della musica colta, per cui la musica è arte da eseguirsi nel pieno rispetto della pagina scritta. Il suo alfiere è Scott Joplin, e i suoi luoghi di nascita e sviluppo sono St. Louis e Sedalia.
Joplin rappresenta, fino al midollo, l’essenza del Ragtime: le sue pagine pianistiche sono lo specchio del suo atteggiamento, che vede nello studio e nella rispettabilità il mezzo per conquistare il rispetto dei bianchi. Maple Leaf Rag (1899) è il primo e straordinario successo: da solo, questo brano frutterà una rendita sufficiente a sostenerlo per tutta la vita.
E le composizioni successive non sono da meno: The Easy Winners, The Entertainer, Bethena, Solace e Magnetic Rag (1914).
Al Classic Ragtime, che incarna lo spirito più conservatore, si affiancano altre declinazioni meno rigide, spesso a carattere regionale, o in cui lo scarto si limita a semplici ragionamenti di bottega.
Il neworleansiano Tony Jackson sviluppa un rag intriso di blues, in linea con il clima giocoso e variegato di quel calderone multiculturale ante litteram che è la capitale della Louisiana; ad Harlem, invece, attorno ai pianisti Eubie Blake e “Luckey” Roberts, il verbo di Joplin si carica di brillantezza e sicurezza tecnica, mentre il ritmo abbandona il bandistico 2/4 a favore del più elastico 4/4, e perfetta espressione del competitivo e modernista clima urbano della grande metropoli.
Dal Ragtime al jazz: lo Stride-piano
Fino alla Guerra Mondiale il Ragtime impazza per tutta la nazione: ma, dopo il 1917, e proprio come il teatro musicale di colore, va incontro a un declino rapido e inarrestabile. Nuovi suoni e tendenze vanno ora di moda, e si chiamano jazz, Swing e blues: e del Ragtime nessuno sembra ricordarsi più. In realtà il Ragtime non è scomparso, ma si è semplicemente sciolto in quegli stessi stili che negli anni ha incontrato e contaminato.
Al Nord, al seguito di quei musicisti impegnati nei contest strumentali, nasce uno stile che è l’evoluzione del Ragtime, e che fa dell’improvvisazione e dell’esibizione tecnica i suoi punti di forza: è lo Stride-piano, il jazz pianistico per eccellenza, esibizionistico, rapido e frizzante, a metà fra rispetto della pagina e spirito estemporaneo. James Price Johnson – attingendo al senso lineare, vocale, del blues, e a una maggiore varietà ritmica – rivela una tensione cosciente verso lo swing.

Lo stride sarà per molti anni la pietra angolare del jazz pianistico: attraverso l’opera di mostri sacri come Willie “The Lion” Smith e soprattutto Fats Waller, le componenti stilistiche dello stride sono unificate in una concezione omogenea, in cui il Ragtime è ancora avvertibile ma non più elemento autonomo… Siamo alle soglie della Seconda Guerra Mondiale: toccherà agli sperimentatori degli anni Quaranta (come Bud Powell) svincolare la mano sinistra dal compito ritmico per promuoverla a creatrice di contrasti armonici e contrappunti melodici, e promuovere un nuovo e più completo stile di solismo alla tastiera.
Riavvolgiamo ora il nastro, e torniamo a fine Ottocento. Nei saloon, nei bordelli, nelle balere, proprio mentre il Ragtime acquista dignità, il vecchio barrelhouse inizia un percorso che lo porta, in pochi anni, e quasi inavvertitamente, a trasformarsi, diventando il più noto e redditizio boogie. Ma cos’è, esattamente, il boogie?
Boogie Woogie: il figlio bastardo del pianoforte afroamericano
Rispetto al Ragtime, il boogie è – nella celebre definizione di Roy Carew – “un figlioccio che non ha voluto studiare”: genere pianistico essenzialmente strumentale, svogliato e caciarone, debitore della veemenza blues, conserva la dialettica rag delle due mani, ma la piega a una dimensione improvvisativa e una ritmica serrata, poco attenta all’aspetto melodico e armonico, e rumorosa. Perché il boogie, proprio come il barrelhouse, serve a ballare!
Non occorre essere per capire immediatamente, a orecchio, che un certo pezzo è un boogie: basta avvertire quello che i tecnici hanno denominato “walking bass”… Quella pulsazione continua, evidente e orecchiabile, che “dà il ritmo”: un basso ostinato di otto note per battuta a tempo di croma, ripetuto dalla mano sinistra in modo incalzante per tutta la durata del brano; una progressione libera dal rigido ritmo di marcia del Ragtime, e ricca di swing, che accompagna la successione armonica, le variazioni della melodia e l’eventuale canto.
Secondo molti storici, il boogie nasce nella cittadina texana di Marshall: città che è anche il centro nevralgico della Texas & Pacific Railroad, la compagnia che sta posando la prima linea ferrata del Texas. E non è un caso che il walking bass del boogie ricordi inequivocabilmente l’incedere ritmico del treno, così importante nell’immaginario dei neri!
Il piano boogie negli anni Venti varca i confini del Texas per espandersi a Sud e a Est, sui battelli fluviali e a New Orleans, nei saloon di Memphis e di Kansas City, e soprattutto a Chicago: qui operano i seminali fratelli Thomas, Clarence “Pine Top” Smith e il maestro Jimmy Yancey.

Il debutto in società
Tutti gli anni Trenta vedono il Boogie crescere sempre più in popolarità e considerazione, fino a giungere alla consacrazione ufficiale: ciò avviene durante lo storico concerto al Carnegie Hall di New York, “From Spirituals to Swing” (1938), dove a spicca la presenza del trio di pianisti Pete Johnson, Albert Ammons e Meade Lux Lewis, invitato espressamente per “presentare” il boogie al pubblico. Il trio ottiene un’accoglienza straordinaria: da questo momento troveranno dimora artistica al Cafè Society di New York, dove si esibiranno in spettacoli sofisticati e ad alto tasso spettacolare, suonando da soli, in coppia o in terzetto.
Il boogie incarna l’essenza giocosa del pianoforte afroamericano, e si trova improvvisamente catapultato all’attenzione del pubblico generalista, rivoluzionando in una sfrenata craze collettiva, abbigliamento, danze e l’intero lessico ludico della spensierata middle class urbana. Durante e subito dopo la Guerra, il boogie si impone come ambasciatore della musica americana nel mondo, offrendo all’Europa la colonna sonora della ritrovata libertà.
Il piano Blues

Nel 1928, a Indianapolis, il pianista Leroy Carr sforna un hit di enorme successo: How Long, How Long Blues (Vocalion, 1928): con lui, il chitarrista Francis “Scrapper” Blackwell. La formula piano-chitarra assicura un equilibrio timbrico ed espressivo perfetto: l’incisività tagliente della sei corde contrasta con la morbidezza delle atmosfere trattenute di Carr, stabilendo una tensione emotiva e sonora inconsueta. Siamo arrivati allo “slow blues”: un mood raffinato, quasi confidenziale, che anticipa il crooning del Club-blues… E che influenza un’intera generazione di musicisti: d’improvviso, i duetti di chitarra e pianoforte divengono all’ordine del giorno.
Il duo Georgia Tom e Tampa Red sceglie invece una strada più ritmata e ridanciana, e ci azzeccano in pieno: l’hokum It’s Tight Like That (1928) fa il botto, e vende sette milioni di copie. Canzone oscena, piena di doppi sensi sessuali e allusioni neanche troppo velate, è zeppo di intuizioni e novità. La struttura formale è una stanza blues di 12 misure completamente rivisitata, ricca di stop-time, in cui gli strumenti segnano solo pochi accenti.
In uno di questi, la chitarra di Tampa Red esegue la classica scala walking boogie, anticipando di almeno vent’anni il Rockabilly degli anni Cinquanta… che, come sappiamo, proprio dai walking bass boogie, traslati sulle chitarre dei musicisti hillbilly, prenderà il via, scuotendo alle radici la pop music, e inaugurando la stagione di tutti gli Elvis Presley e i Jerry Lee Lewis a venire. E dire che tutto era iniziato nelle taverne dei campi di lavoro, nemmeno 60 anni prima: quanta strada ha fatto, in pochi decenni, il pianoforte afroamericano!
a cura di Francesco Conti “Chiccoconti”
Fonti
- Amiri Baraka (Leroi Jones), Il popolo del blues, tr.it., Milano, Shake Edizioni, 2007
- Eileen Southern, La musica dei neri americani, tr.it.,Milano, Il Saggiatore, 2007
- Mariano De Simone, Blues! – Afroamericani: da schiavi a emarginati, Roma, Arcana, 2012
- Vincenzo Martorella, Il Blues, Torino, Einaudi, 2009
- Edoardo Fassio, Blues, Bari, Laterza, 2006
- Giles Oakley, Blues – La musica del Diavolo, tr.it., Milano, Shake Edizioni, 2009
- Paul Oliver, La grande storia del blues, tr.it., Roma, Anthropos Editrice, 1986
- Stefano Isidoro Bianchi, Pre-war folk, Camucia (Arezzo), Tuttle Edizioni, 2007