Cos’è il Tin Pan Alley Blues? Ogni tanto è bello scardinare i nostri pregiudizi: e scoprire, ad esempio, che ad aprire la strada alla musica commerciale di origine afroamericana sia stato un complesso stilistico oggi quasi dimenticato, ma che ai suoi tempi ha fatto faville: il Tin Pan Alley Blues. Vediamo di cosa si tratta…
Il Tin Pan Alley Blues è, prima di Robert Johnson, prima dell’Imperatrice Bessie Smith, prima di Blind Lemon Jefferson, il genere cui si deve la diffusione del termine “blues” in ambito discografico e commerciale: ma, a dispetto del suo nome, è caratterizzato da canzoni e brani strumentali dal sapore blues molto vago, eseguiti da cantanti bianche, e spesso scritti da autori dal medesimo colore di pelle negli studi newyorkesi di Tin Pan Alley: il quartiere per eccellenza dell’editoria musicale a stelle e strisce.
Primizie
L’industria discografica di New York, negli anni Dieci, sfrutta le grandi energie accumulate negli ultimi decenni dell’Ottocento, e getta sul piatto un’infinita serie di prodotti melodici nati dall’incrocio fra le basi armoniche bianche e le novità di origine afroamericana: dopo le coon song e il ragtime, ora tocca al blues. Ma quale blues? Non certo quello, ardito e intemperante, delle campagne del Sud: ma una forma artificiosa, cauta, perbenista, che mostra rimandi con il “tempo stracciato” e il jass delle origini, ma che – proprio per questo – entusiasma il pubblico pagante di pelle chiara.
Il primo blues a stampa di cui si abbia notizia risale al 1908: si tratta di I got the Blues del siciliano Antonio Maggio, un oscuro insegnante di musica di New Orleans che non ha lasciato altre tracce o memorie.
Il brano è uno strumentale per pianoforte, ed è in realtà un ragtime (“up-to-date rag”, recita lo spartito) con un’introduzione in 12 misure; musicalmente lontano dal blues, non lo è però nello spirito: il titolo – e la didascalia (“Respectfully dedicated to all those who have the blues”) – si riferiscono infatti alla condizione esistenziale dell’”avere i blues”.
Nel 1909 è la volta di I’m Alabama Bound (noto anche come “The Alabama Blues”), spartito a firma del pianista bianco Robert Hoffman, sempre di New Orleans, presentato come “ragtime two step”: la canzone prende così piede nel circuito del vaudeville nero che dopo pochi mesi, la black singer Ma Rainey, futura stella del blues registrato, si esibirà in Florida con uno spettacolo nuovo di zecca, e intitolato proprio a questo brano.
Nell’autunno del 1912 sono ben quattro gli spartiti, regolarmente coperti da copyright, a fregiarsi dell’appellativo di blues: Baby Seals Blues (del nero Arthur “Baby” Seales), Dallas Blues (del bianco d’origine tedesca Hart A. Wand), The Negro Blues (del bianco, di nome e di fatto, LeRoy “Lasses” White), e la prima composizione del futuro “Father of the blues” W.C. Handy, The Memphis Blues.
Queste canzoni, simbolicamente, aprono la stagione del Tin Pan Alley Blues.
Tutti pazzi per il Tin Pan Alley Blues
Il Tin Pan Alley Blues è una delle molte craze che percorrono gli spensierati anni Dieci, caratterizzata da un aggancio superficiale con quella che si crede una tendenza passeggera, un capriccio come tanti altri. Da qui in avanti non si contano i brani di successo a fregiarsi del suffisso “blues”, quasi fosse un format (“The xxx Blues”): ma è più un modo per vendere, un’etichetta alla moda appiccicata a una canzone (al pari di “rag”, “fox”, “jazz”, eccetera), che un certificato di origine.
Basta fare qualche conto. Dei sei brani citati, quattro sono di firma bianca; tranne uno (“Baby Seals Blues”) sono tutti strumentali; e il solo “Dallas Blues” può realisticamente essere considerato un “vero” blues: gli altri sono tutti, più o meno, spartiti assai edulcorati a cavallo fra rag, pop e jazz, una serie di bozzetti per i frequentatori del vaudeville. Non passa molto che alle melodie studiate da questi scaltri mestieranti vengano appiccicate delle parole: d’altronde, nulla può sostituire una voce umana, e la presenza di un cantante… Anzi, di una cantante.
Le Red Hot Mamas
In questa fase – proprio come avverrà nel Classic Blues, dieci anni dopo – a dominare sono le voci femminili: le (bianche) Red hot mamas… Robuste sciantose dal piglio verace, ornate di boa di struzzo, gioielli sfavillanti e patacche senza valore, sempre in bilico fra vocalità possenti e caloroso magnetismo, fra umori neri, burlesque bianco e scintillante presenza scenica.
Le Red hot mamas percorrono gli anni Dieci come un tornado di colori e paillettes. I club esclusivi, le sciatte ribalte di periferia, i teatrini di quartiere: tutti i luoghi dello spettacolo popolare sono travolti da queste vivaci ed entusiaste cantanti. Il gruppo, va da sé, è molto eterogeneo: ma, che si tratti di ambiziose dilettanti, starnazzanti starlette, logore reduci blackface, o finissime professioniste, gli imperativi sono sempre gli stessi… Divertire il pubblico, stuzzicarne i sensi, e abbagliarlo con la propria sfrontatezza: ovviamente, senza l’ausilio di microfoni, ma con la potenza e la forza della sola voce.
Dai palchi, all’esordio in sala di incisione e all’inaugurazione del Tin Pan Alley Blues, il passo è breve: siamo però ancora negli anni dei cilindri Edison e della scarsa resa sonora, e le registrazioni sopravvissute, purtroppo, non ci possono regalare che una pallida testimonianza della loro arte. E, proprio perché ancora a inizio secolo, le scritturate devono essere rigorosamente di pelle chiara: per le nere, le incisioni sono un tabù.
Sophie, Marion e Lee
Sophie Tucker (1886-1966), americana di origine ebraico-russo-polacca, è la matriarca di questa allegra compagnia: terragna, ruvida e giunonica, riesce ad affrontare i tempi sincopati in modo disinvolto, grazie a un inimitabile stile a cavallo fra il cantato e il parlato.
Il suo debutto è molto curioso, e sintomatico dello spirito dei tempi: nel 1908, dopo anni di praticantato blackface, una sera si accorge di aver smarrito la valigia dei trucchi. Poco male: si presenta sul palco, e dichiara: “Come potete vedere, sono una bianca. Bene, vi dirò una cosa: non sono del Sud. Sono un’ebrea, e ho imparato l’accento del Sud facendo il teatro blackface per due anni. E ora, boss, suona la mia canzone”.
Considerando il carattere e il suo fisico, nulla da eccepire che giochi con titoli allusivi come “I Don’t Want to Be Thin,” e “Nobody Loves a Fat Girl, but oh How a Fat Girl Can Love”.
Il debutto discografico della Tucker avviene con una decina di cilindri Edison: il colpo che cambia la sua carriera è “Some of These Days” (1911), straordinario hit a firma Shelton Brooks, e canzone-simbolo non solo di Sophie ma di un’intera epoca. Il suo picco artistico dura sino al ’18, anni in cui sforna hit come “Don’t Put a Tax on the Beautiful Girls” e “Everybody Shimmies Now”.
Nel 1922, passata alla Okeh, incide il 78 giri “My Yiddische Mama” (1928): un curioso esempio di disco bilingue, in inglese su un lato, e in yiddish sull’altro.
Le Red hot mamas sono, letteralmente, una marea: fra le migliori prosecutrici della Tucker, e fra le poche ad avere un percorso di rilievo, citiamo Marion Harris e Lee Morse… Cantanti che arricchiscono la tavolozza espressiva del canto femminile con pieghe blue e languide colorazioni negre, portando la voce alla soglia della lacerazione, e che accompagnano la vecchia coon song alle porte del blues.
Mary Ellen Harrison, in arte Marion Harris (1896-1944), dopo un inizio nei musical di New York, nel 1917 è messa sotto contratto dalla Victor: le sue canzoni (titoli come “After You’ve Gone” e il suo successo più grande, “I Ain’t Got Nobody”), si fanno notare per un timbro di voce scuro, da donna del Sud, capace di ingannare gli ignari ascoltatori da salotto.
Nata come Lena Corinne Taylor, Lee Morse (1897-1954) parrebbe tutto l’opposto del prototipo della Red Hot Mama: uno scricciolo di donna alta appena 1 metro e 50, e con soli 45 chili di peso. Ma la natura, per un curioso contrappasso, le ha regalato una voce potente, profonda, con un range impressionante, e impreziosita da uno jodeling per l’epoca molto originale. L’esordio discografico avviene nel 1924, con la francese Pathé Records: i 78 giri più noti – fra cui non pochi di sua penna – sono “Telling Eyes”, “Those Daisy Days” e “Daddy’s girl”.
Chi è W.C. Handy: il padre del Tin Pan Alley Blues
Questi titoli sono scritti dalle stesse cantanti, o da autori professionisti come i neri Shelton Brooks e Richard M. Jones (sua è la celebre “Trouble in Mind”): l’autore-esecutore più famoso del Tin Pan Alley Blues è però William Christopher W.C. Handy (1873-1958). Autodefinitosi “Father of the blues”, è più realisticamente uno dei testimoni della sua nascita, un autorevole diffusore, e un compositore di successo. Figlio di uno schiavo affrancato, dopo aver studiato teoria musicale, diviene cornettista e capobanda, esibendosi nelle sontuose feste delle piantagioni con un repertorio “rispettabile” e convenzionale… Poco o nullo è, a quei tempi, l’interesse dedicato ai canti folk ascoltati nell’infanzia, e che giudica grezzi e volgari.
Nel 1903, la folgorazione: prima, il leggendario incontro con un vecchio songster alla stazione di Tutwiler, che “intona la musica più strana che avesse mai sentito”; poi, a distanza di pochi mesi, una seconda sorpresa. Handy ha appena finito il turno in una sala da ballo di Cleveland, quando sul palchetto sale una band nera: un gruppo male in arnese, che ripete all’infinito lo stesso motivo, ossessionante e rozzo… Ma che raccoglie molti applausi, e soprattutto incassa in mance una piccola fortuna! W.C. capisce quanto possano esser autentici (e redditizi) i canti della sua gente, e mette la sua abilità al loro servizio: attorno a quei “frammenti di melodie blues” (come amava lui stesso definirli) costruisce composizioni più complesse e strutturate.
Dalle sue mani nascono numerosi standard: materiale in origine esclusivamente strumentale, che comprende motivi famosi ancor oggi, come “Memphis Blues”, il suo primo blues a stampa (1912), “St. Louis Blues” (1914, un vero e proprio monumento della musica americana… tradotto, dall’autarchica editoria fascista, con l’orribile titolo di “Le tristezze di San Luigi”), “Yellow Dog Blues”, “Beale Street Blues” e “Harlem Blues”.
“Vorrei, ma non posso”
L’opinione che la critica riserva al lavoro di Handy è controversa. Da un lato questi titoli, pur riferibili alla tendenza alla moda dettata da Tin Pan Alley, mostrano una minore superficialità, una più fedele adesione allo spirito afroamericano. Dall’altro, però, il blues è più pretesto che sostanza: il suo repertorio è una simpatica accozzaglia di siparietti vaudeville, marcette e ragtime orchestrale; una musica piacevole, ma davvero troppo formale ed educata per esser considerata un prodotto genuino. “St. Louis Blues” in questo è emblematica: una struttura eterodossa, sostenuta da una linea di basso a ritmo di tresillo, e che alterna strofe regolari blues in dodici misure a un refrain in tonalità minore (e a 16 misure). Una specie di “vorrei ma non posso”, un compromesso in bilico fra autenticità e mestiere.
Le canzoni di Handy e dei suoi colleghi, a dispetto della loro eterogeneità – o, forse, proprio per quello – hanno una gran fortuna. Artisti come Arthur “Baby” Seales, Kid Love, Butler “String Beans” May, in compagnia di altri performer ora totalmente dimenticati, scrivono decine di brani ispirati al blues: non ancora quello formalizzato delle 12 battute, quanto l’idea, il sentimento del blues da cui deriverà – a breve – lo stile stabile e quadrato del Classic Blues.
Nulla sarebbe, però, senza le Red Hot Mamas. Rassicuranti come una massaia e stuzzicanti come una maitresse, sono la manifestazione del lento, faticoso superamento di un tabù, e dell’affioramento di un sommerso sociale e culturale: il “nero”, che agita il subconscio americano come un pensiero peccaminoso, trova con queste artiste un modo per proporsi, pur se “in maschera”.
Conclusione
Giusto il tempo per abituarsi, e all’inizio degli anni Venti il mercato e il pubblico sono pronti per la “versione originale”: le sorelle nere, le grandi dive del Classic Blues… Le prime star del nascente stardom afroamericano, icone viventi di successo, emancipazione e popolarità. Sarà con loro che inizieremo, più propriamente, a parlare di “blues”: e, curiosamente, il blues degli uomini, quello con chitarra e sigaretta, e del Diavolo all’incrocio, arriverà ancora dopo! Ma nulla sarebbe potuto essere senza i primi, pallidi, tentativi sfornati dal Tin Pan Alley Blues.
a cura di Francesco Conti “Chiccoconti”
Fonti
- EILEEN SOUTHERN, La musica dei neri americani, tr.it.,Milano, Il Saggiatore, 2007
- EDOARDO FASSIO, Blues, Bari, Laterza, 2006
- VINCENZO MARTORELLA, Il Blues, Torino, Einaudi, 2009
- GILES OAKLEY, Blues – La musica del diavolo, tr.it., Milano, Shake Edizioni, 2009
- PAUL OLIVER, La grande storia del blues, tr.it., Roma, Anthropos Editrice, 1986
- The Composers of Early American Popular Music (Internet). Disponibile all’indirizzo: http://parlorsongs.com/bios/composersbios.php