I 5 migliori vinili jazz da collezione secondo PapiXon, realtà imprenditoriale che si ispira alla musica per creare papillon e bretelle unici e fatti a mano
Ci sono due modi per avvicinarsi al Jazz: lo si fa o negli anni iniziali dell’educazione sentimentale musicale, come per istinto, oppure dopo anni e anni di diffidenza, a poco a poco, come ho fatto io!
Ho sviluppato sin da giovanissimo una reale passione per la musica rock, funky, progressive, pop ovviamente di alta qualità e ad un certo punto mi sono detto: è arrivato il momento! Ho preso il coraggio a due mani ed ho iniziato ad acquistare qualche vinile.
Ammetto che la prima spinta mi è stata data dall’impatto visivo di alcune copertine sulla increzione di endorfine. Eh già, bisogna ammetterlo: la maggior parte delle copertine dei vinili jazz ha un fascino insito che ti attira, ti chiama e ti dice: “Comprami, non te ne pentirai, vedrai…”.
La curiosità mi spingeva a capire se quelle immagini combaciavano centimetro per centimetro a quanto la musica suscitava e muoveva nell’anima. Per me è stato SI, al 100%. Da lì, il passo poi è breve. Il mio desiderio di trasformare le emozioni e le sensazioni in “materia” si è concretizzato. Tutto molto personale, ma veritiero, mai verosimile.
Vinili jazz: i cinque migliori secondo PapiXon
Vediamo quindi quali sono i 5 migliori vinili jazz che non devono mancare nella tua collezione:
- Conversation with myself
- Koln Koncert
- Kind of Blue
- Blues in Orbit
- A Love Supreme
Conversation with myself di Bill Evans
Questo disco è, tra i vinili jazz che possiedo, il mio preferito. Per centinaia di motivi. Ve ne elenco alcuni. Partiamo dal titolo: Conversation with myself. Trasmette profondità, ricerca, introspezione. Ci si aspetta quindi di trovare tracce dense di complessità ed in effetti per certi versi è così. Tuttavia non si tratta di una complessità che affatica, difficile da seguire.
L’afflato generale tipico di Evans si conferma in questo lavoro del 1963. La ricchezza musicale del compositore, il tecnicismo del pianista fatto e finito, l’orecchio globale dell’arrangiatore esperto creano un mix di armoniche che regalano ricchezza cromatica e impreziosiscono anche una melodia relativamente pura e semplice come quella del tema d’amore del colossal Spartaco. Ecco, questo è il secondo motivo che mi lega a questo vinile: uno dei capolavori di uno dei miei registi preferiti, Stanley Kubrik.
Stiamo parlando di una composizione nata dalla penna di Alex North che di fatto scrive per orchestra. Cosa si inventa il nostro? Per imprimere alla sua cover la ricchezza orchestrale originaria crea uno dei primi esperimenti di overdubbing: anticipando il moderno concetto di loop station incide separatamente tre tracce e le sovrappone! Ed infatti una delle prime domande che mi posi ascoltando questo vinile fu: Bill Evans è l’unico esempio al mondo di pianista con sei mani? Infine poteva mancare una considerazione sulla copertina?!
Per me è un sunto della poetica di Evans. Ve ne sono alcuni esemplari, tutti con la stessa grafica, variano solo le tonalità dello sfondo su cui si staglia l’elemento comune: una foto in cui la silhouette di Evans al piano contrasta su un tenue bagliore. Insomma, non è necessario mostrare dettagli; l’artista si rende riconoscibile con quel suo stile riservato, intimista, elegante, privo di fronzoli.
La copia in mio possesso possiede uno sfondo color glicine che regala una ulteriore nota di delicatezza e riserbo. Per questo motivo ho deciso di abbinare questo vinile a delle bretelle da uomo di una tenue tonalità di giallo ottenuta grazie ad un minuscolo quadrettato grigio: un accessorio che non ha bisogno di dimostrare nient’altro che la sua funzione. Il bello per ciò che realmente è.
The Koln Concert di Keith Jarrett
Nel 1975 Keith Jarrett, portentoso pianista di matrice classica ma già da qualche anno sulla cresta dell’onda del panorama jazz americano, stava portando avanti la sua lunga tournee europea con concerti per piano solo. Probabilmente aveva sviluppato quel “caratterino” che contribuì a renderlo famoso come una “prima donna del jazz” durante il periodo “a servizio” di Miles Davis il quale lo aveva quasi obbligato a lasciare il suo adorato strumento acustico per votarsi a quello elettrico.
Detto ciò, Jarrett si muoveva nelle varie tappe ad una sola condizione: sul palco doveva esserci uno Steinway gran coda. Del resto non era l’unico musicista ad avere questo genere di pretese, anche alcuni pianisti classici avevano queste richieste e talora pretendevano di trasportare il loro proprio pianoforte da una città all’altra. La richiesta tuttavia non era solo un capriccio. Riempire sonoramente una sala da concerto partendo dal palco e arrivando all’ultima fila con un pianoforte qualsiasi non è esattamente possibile.
Quel 24 gennaio, a Colonia, lo Steinway non arrivò. Jarrett minacciò di non dare luogo alla performance. Dietro le quinte c’erano due strumenti di fattura tedesca, due Bosendorfer. Jarrett li provò e si abbozzò per uno dei due. I tecnici del teatro però commettono un errore madornale: portano sulla scena il pianoforte sbagliato. Jarret ovviamente non lo sa. Ecco che quindi si siede al piano e articola le prime note. Si tratta di un tema meditativo… Chissà cosa stava meditando…! Lo spirito guerriero del musicista però ha la meglio: Jarrett ingaggia una sfida con uno strumento dalle scarse possibilità. E la vince. Il risultato è 50 minuti di improvvisazione pura, geniale, coinvolgente in cui anche lo stesso musicista è totalmente trasportato al punto da cantare o incitare se stesso.
La serata viene registrata. Il prodotto è superbo e dopo qualche resistenza Jarrett si decide a lasciarlo incidere e pubblicare tra i vinili jazz. Ha ragione ancora una volta: The Koln Concert diventa il disco jazz per piano solo più venduto della storia. Dopo ancora qualche titubanza Jarrett acconsente anche a lasciare trascrivere la partitura e così ancora oggi qualche pianista di buona volontà può cimentarsi nella sua imitazione.
Jarrett non me lo vedo proprio con un papillon al collo. La copertina del disco è una sua foto in bianco e nero di quella sera, circondata da alcuni centimetri di “pure white”. La sua camicia abbondante con un motivo a menandro che decora l’orlo del taschino e richiama il bianco e nero dei tasti mi ha ispirato delle bretelle da uomo quadrettate finemente nei toni del grigio. Dal “pure white” al “pure gray”, l’eleganza casual è garantita!
Kind of Blue di Miles Davis
Kind of Blue lo considero tra i vinili jazz il capolavoro di Miles Davis. La sua idea di musica è presente in questo disco come se fosse un manifesto. Davis si conferma il cultore del suono e della melodia e proprio la melodia è sopra tutto. Il bello è che tutto il gruppo di musicisti che lo accompagna la pensa esattamente come lui, e parliamo di gente del calibro di John Coltrane e Bill Evans.
Proprio quest’ultimo presenta il disco nelle note di copertina e paragona l’esecuzione musicale ad una tecnica giapponese del dipinto “in cui l’artista opera in modo spontaneo ma all’interno di una disciplina precisa”.
Bill Evans in qualità di portavoce di Davis spiega che le tracce sono state registrate solo dopo qualche frase esplicativa e che la rilassatezza del clima ha contribuito alla realizzazione di qualcosa che parla di spontaneità espressiva. Evans in seguito sottolinea la semplicità armonica sulla base di cui si svolge tutto il lavoro, traccia per traccia.
Questi 55 minuti possono essere ascoltati in vario modo, come un sottofondo o come un concerto di elevato spessore, l’orecchio non è mai deluso. Non ci sono virtuosismi se non una congenita ricerca del suono e dell’insieme; in questo il pianoforte di Evans agisce da collante discreto ma assolutamente “appiccicoso”. In questo disco mi piace ascoltare la liberazione di Davis, che ha compiuto forse un passo in più rispetto a Coltrane, che pure lo accompagna in questa prova, ma che alla fine non si redime.
Davis esce dalla gabbia in cui era stato chiuso all’inizio vincolato agli studi classici, e in cui a sua volta si era rinchiuso prigioniero di schemi e prassi esecutiva altrui. Un uomo schivo e a tratti aggressivo, ma sempre per difesa, trova la maturità artistica e morale e ne gode per tutta la sua longeva vita. A queste sensazioni ho abbinato un papillon da uomo colorato ma non sgargiante, una fantasia astratta che richiama colori esotici, natura e libertà di essere chi si è.
Blues in Orbit di Duke Ellington
Chiunque almeno una volta nella vita ha sentito nominare Duke Ellington. Intendo dire che se chiedi ad uno sconosciuto “Chi è Duke Ellington?” ti risponderà qualcosa tipo: “Uno che faceva Jazz”. Oppure: “Uno dei grandi maestri del Jazz”.
Ho comprato Blues in Orbit per questo motivo: non posso non possedere tra i miei vinili jazz un disco di Duke Ellington! Senza sapere esattamente neanche chi fosse. Altri buoni motivi sono stati: una elegante copertina con in primo piano il sorriso sornione a labbra strette di Ellington incorniciato da un centimetro e mezzo di blu; titolo e autore in bianco. E infine: tracce brevi! Se inizi ad ascoltare un nuovo genere musicale non puoi lasciarti scoraggiare da tracce chilometriche, meglio educare l’orecchio all’ascolto lentamente. Ascoltare questo album mi ha costretto a saperne di più. Ho scoperto che Ellington di nome faceva Edward e che l’appellativo “Duke” gli venne affibbiato da adolescente visto che si distingueva per una eleganza innata. Fu un pianista e compositore lungimirante e generoso.
L’ensamble che lo accompagna in questo disco non è un ensamble fisso ma in un certo senso un’acozzaglia di amici più o meno stretti, alcuni dei quali membri della longeva orchestra da lui fondata. Nelle tracce la presenza di Ellington è l’eccezionale collante, discreto e solido su cui dialogano i vari strumenti solisti. L’atmosfera che ho assaporato è quella di un afterdinner un po’ clandestino ma assolutamente di lusso. Un lusso discreto, mai lucido. Tutto funziona alla perfezione anche se le registrazioni sono state davvero poco pianificate; avvenivano da notte fonda fino all’alba in un clima di reale relax e gaudente divertimento. Si sente che i musicisti suonavano esattamente ciò che gli andava di suonare, senza le costrizioni di un “concerto”.
C’è da chiedersi a quale “orbita” si riferisca Ellington nel titolo. E’ un Blues che si eleva tra le luci soffuse di un una tardissima notte americana fino ad arrivare nello spazio? O è un Blues che gravita nella sua stessa orbita sonora? Onestamente non ho trovato risposta a questa domanda, ma ho creato un papillon elegante, che richiama sia il blu della copertina che l’azzurro che mi viene ispirato dalla parola “orbita”. E mi immagino “il Duca” con questo papillon da uomo un po’ allentato, suonare ad occhi chiusi con la sua band mentre va in contro all’alba.
A love Supreme di John Coltrane
John Coltrane è sicuramente un nome sacro, noto ai più e questo suo album rappresenta una pietra miliare nella storia dei vinili jazz… Sono stato incuriosito dalla sua foto in primo piano in bianco e nero in copertina, ha un’espressione corrucciata, sembra porsi delle domande o essere alla ricerca di qualcosa. Aprendo il disco tre elementi mi hanno conquistato: la riproduzione di un ritratto di Coltrane al sassofono di Victor Kalin, due scritti dello stesso Coltrane e una presentazione del disco firmata Michael Cuscuna.
Coltrane scrive in pratica una lettera all’ascoltatore in cui spiega che intorno al 1957 fu folgorato sulla via di Damasco; ebbe un’illuminazione divina e comprese che lo scopo della sua vita era quello di rendere grazie a Dio attraverso la musica. Coltrane si riferisce al lungo periodo di eccessi che lo portarono a compromettere irreparabilmente le sue condizioni di salute.
Con queste premesse, mi aspettavo che “A Love Supreme” fosse un disco dal trasudante ottimismo, in cui un musicista ormai finalmente risolto donava con gioia se stesso al mondo. Mi sono dovuto ricredere. Per me A Love Supreme è un disco ricco di misticismo, la descrizione di un cammino pieno di domande senza risposta, in cui la maturità di Coltrane apre le porte a qualcosa di nuovo.
Con questo album infatti inizia l’era del free jazz.
Questo sì, lo si annusa. C’è un desiderio di libertà che però resta per lo più ingabbiato dagli spettri dell’anima, un misticismo che resta tensione ma non si trasforma in luce. A Love Supreme esce nel 1964, come detto dopo anni di sregolatezza e dipendenze da cui Coltrane non sembra mai essersi definitivamente liberato, insieme ai fantasmi della religione popolare, della numerologia e della superstizione. Infatti morirà solo tre anni dopo.
A Love Supreme inizia con un GONG e finisce con dei piatti che vibrano sommessamente, praticamente un’autobiografia: l’inizio e la fine della carriera e della vita di una delle menti più brillanti che il jazz abbia mai avuto.
Il papillon da uomo che ho deciso di abbinare lascia poco spazio all’immaginazione: per metà blu notte e per l’altra metà arricchito da una minuta fantasia geometrica che richiama un po’ la psichedelia e un po’il rigore della forma di un tema che si ripete regolarmente, così come il mantra recitato dalla voce stesso Coltrane “A love supreme, a love supreme, a love supreme…”
Questi sono i nostri vinili jazz preferiti, quelli che secondo noi sono i migliori. Nei commenti qui sotto diteci i vostri.
di Raffaella Di Pasqale
per Papixon.it
________
Raffaella Di Pasqale, medico anestesista rianimatore e agopunturista. Pianista e fotografa quando è di riposo. Ha sposato il progetto Papixon.it, creatore di manufatti d’abbigliamento ispirati alla musica.
Info: https://www.facebook.com/PapiXon/